Pubblicato il 26 Novembre 2020.
Pubblichiamo un estratto dal libro di Andrea Minuz “Fellini, Roma”, uscito per Rubbettino: ringraziamo editore e autore.
Expanded cinema: il Grande Raccordo Anulare
Una recente guida turistica per stranieri desiderosi di vivere la Roma di Fellini elenca tra le principali attrazioni della città un giro in macchina sul Grande Raccordo Anulare. In una metropoli che occupa il secondo posto nella classifica mondiale delle ore perse nel traffico dai suoi abitanti (254 l’anno, dietro Bogotà, in testa con 272 ore), l’idea di poter trascorrere un pomeriggio bloccati sul Raccordo appare come un’esperienza decisiva per sentirsi parte della vita della città. D’altro canto, come rammenta la guida, «Fellini è riuscito a trovare della magia anche in questo luogo».
Quella del Raccordo Anulare è una delle sequenze più impressionanti di Roma, quasi un pezzo di cinema sperimentale, completamente sganciato dalle scene che lo precedono, visionario, ipnotico, il più infernale dei gironi infernali di cui si compone Roma.
Sin lì il film scorre per blocchi legati da una minima progressione logico-narrativa (Roma sognata dalla provincia, l’arrivo in città, la pensione di via Albalonga dove si stabilisce il giovane Fellini, le cene nelle trattorie all’aperto, una prostituta sull’Appia Antica). Poi, con un improvviso salto in avanti, siamo catapultati al casello d’ingresso del GRA. Alla fine degli anni Trenta, arrivare a Roma significa passare dalla Stazione Termini, farsi largo in una folla di facce losche, carabinieri, corazzieri, monache, preti, donne fatali, venditori ambulanti, sotto lo sguardo di Assia Noris e Vittorio De Sica nel cartellone pubblicitario de I grandi magazzini, di Mario Camerini.
Arrivare nella «Roma di oggi», come dice la voce narrante, significa invece entrarci dal Raccordo Anulare, il celebre tratto di autostrada urbana che «circonda la città come un anello di Saturno». Nel 1971, quando Fellini gira il film, si è da poco conclusa la costruzione dell’ultimo tratto (tra via Cassia e via Flaminia). Dopo diciannove anni di lavori l’anello è finalmente completato (viene inaugurato dal presidente dell’Anas, Ennio Catalante, il 16 settembre 1970). È la più grande autostrada urbana d’Italia e una delle più grandi d’Europa. Nei loro giri di perlustrazione per preparare Roma, Fellini e Zapponi notano come, a seconda dei punti cardinali, «l’ambiente intorno somiglia già ai luoghi d’arrivo delle varie direttrici: al nord, le colline hanno un morbido sapore toscano, al sud le verdure scarmigliate sanno già di Campania, e all’ovest una pianura piatta e incerta come un miraggio sembra una lunghissima spiaggia».
Ma Fellini fa ricostruire tutto. Il suo personale pezzo di Raccordo allestito davanti Cinecittà è lungo cinquecento metri, è «un raccordo-specimen, ma perfetto», dice Zapponi, «anzi, ovviamente, più raccordo del raccordo. Del resto, l’ha fatto, in poco tempo, la stessa società appaltatrice del raccordo vero, e come il raccordo vero già dopo poco tempo è rovinato, strappato pieno di buche: il che va benissimo». Non è il Raccordo, ma il simbolo, l’idea, la “quintessenza” del Raccordo Anulare.
In una sequenza di otto minuti, praticamente quasi senza dialoghi, in uno spettro sconfinato di suoni, voci, rumori, Fellini restituisce il turbinio di un gigantesco ingorgo automobilistico. È una cartolina acustica di Roma e del «generale assalto ai sensi delle metropoli moderne», ma dilatato nella descrizione vertiginosa, parossistica di Fellini.
Come notava una recensione dell’epoca:
È vero che il traffico è caotico, e che quello del raccordo anulare, all’uscita dell’Autostrada del Sole, è fantasmagorico, pericoloso. Ma l’inferno del raccordo anulare felliniano non è la realtà, è l’incubo della realtà.
Nelle prime inquadrature vediamo Fellini all’ingresso del casello che dà istruzioni alla troupe per allestire la gru da utilizzare nelle riprese (dice di sbrigarsi, di fare in fretta perché «sta per mettersi a piovere»). Quindi la carovana si mette in marcia. Nel crescendo della pioggia, mentre il cielo s’incupisce e cala l’oscurità, siamo immersi in una parata di frammenti di spazio urbano fuori controllo: insegne pubblicitarie, fabbriche abbandonate, prostitute, autostoppisti, pezzi di rovine romane, campagna, luci al neon, motorette, camion, un pullman dei tifosi del Napoli che si scambia insulti con i tifosi della Roma, un cavallo bianco che vaga solitario tra le automobili in mezzo al traffico, cani randagi, nuvole di fumo nero che si alzano dai copertoni incendiati, fango, pozzanghere, scheletri di cemento armato, palazzine in costruzione, un cingolato, un tir ribaltato tra le fiamme circondato da carcasse di bestiame insanguinato, il cumulo di lampadari delle vetrate dell’Artigianato Fiorentino che sfila via come una giostra, all’uscita 20 del GRA (La Romanina), mescolato ad altre insegne fasulle, “Frascati”, “Capoccetta”, “Metropolitana”.
Poi la notte rischiarata dai bagliori dei lanciarazzi sparati dalla troupe, dai fari abbaglianti delle auto in coda ripresi in controluce, riempendo l’inquadratura e mescolandosi alla pioggia come un quadro informale che si anima sotto i nostri occhi. Poi i tafferugli tra la polizia e i manifestanti (sul Raccordo!) che intonano “padroni borghesi-ancora-pochi-mesi”, infine il Colosseo, fuori da ogni possibile toponomastica, filmato con un dolly che si leva in alto a svelare la coda interminabile di automobili che lo circonda; un Colosseo «smaccatamente falso e arreso alla funzione di monumentale spartitraffico».
La prima cosa che salta agli occhi è la restituzione percettiva di un faticoso, purgatoriale «arrancare verso il nulla». Le automobili girano a vuoto nello stesso punto. È un effetto ottenuto attraverso il montaggio e la disarticolazione dello spazio. Man mano che la sequenza procede, la visione sembra restringersi sempre di più: dalle riprese aeree, in campo lungo, della parte iniziale, si passa a una serie di inquadrature sempre più ristrette, rapide, prese dagli interni delle automobili, ritagliando dal parabrezza pezzi di spazio che si fanno via via indecifrabili. Poi una sfilata di volti che si intravedono nell’oscurità. Facce e profili anonimi di altrettanti automobilisti in coda che ci guardano dietro i finestrini appannati dalla pioggia battente. Le immagini cambiano di continuo l’angolazione di ripresa: siamo in movimento, ma non avanziamo.
Ecco il cartello che segnala l’uscita per Terni, inquadrato più volte, in entrambi i sensi di marcia, ecco un gruppo di autostoppisti che chiede un passaggio verso Napoli e verso Firenze, cioè in due direzioni opposte: il GRA come allucinazione percettiva, come un gigantesco nastro di Möbius urbano. Siamo ben oltre il senso di claustrofobia dell’incipit di 8½, con Mastroianni che vola fuori dal finestrino della sua auto intrappolata nel traffico. Ritroveremo, ma in una chiave ben più realistica, una simile paralisi di automobili ne L’ingorgo, film corale di Comencini (scritto con Zapponi), del 1979, sorta di spin-off della sequenza felliniana, di nuovo sul raccordo, di nuovo allestito a Cinecittà.
Ma insieme alla disarticolazione dello spazio, l’impatto sensoriale della sequenza è costruito soprattutto attraverso il sound-sign. Un accumulo di tracce sonore assemblate in un unico, indistinto flusso di rumori: automobili, pioggia, pioggia battente, oscuri suoni industriali di fabbriche in lontananza, latrati di cani, clacson, poi gli idranti dei pompieri che sedano l’incendio, poi le sirene della polizia e i cori dei manifestanti, in un crescendo di clacson e pioggia ormai fuori controllo. È nel paesaggio sonoro che si definisce la cifra espressionista di Roma, nella sua pioggia «che non è l’aggraziata piova milanese», come diceva Manganelli, ma ha «un furore subitaneo e sfacciato, un che di animalesco, di sventato, di rissoso, appunto una pioggia fa bulli, come un atto di iracondia delle nuvole.
Dalle voci di Roma, dal greve impasto sonoro di stornelli, parolacce, grida, insulti, pianti di bambini, si passa così ai suoni di Roma, al temporale, ai tuoni, ai clacson impazziti, alle automobili in corsa, alla psichedelia acustica del Raccordo Anulare. Il risultato è una pura esperienza sensoriale, la trasformazione del GRA in una realtà acustica e spettacolare, un concerto audiovisivo fatto di rumori, suoni, sfarfallio di luci, colori, come un pezzo di quell’expanded cinema, teorizzato in quegli anni da Gene Youngblood per dar conto dello sconfinamento delle immagini in movimento in pura esperienza cinetica. Come il caleidoscopico viaggio nell’infinito del 2001 di Kubrick, ma calato dalle profondità del cosmo nelle carreggiate del Grande Raccordo Anulare, «l’anello di Saturno» di Roma.
La sequenza diventa infondo anche un omaggio alla follia di un’opera urbanistica italiana che ha generato leggende metropolitane, letture esoteriche, spericolate interpretazioni post strutturaliste, come quella di Renato Nicolini, secondo cui il GRA è «un’immagine performata», un’«espressione del tardo surrealismo sin dal nome del suo ideatore-progettista, l’ingegner Eugenio Gra», una duchampiana «macchina celibe che esiste in funzione delle sue uscite e delle sue entrate».
Di sicuro il GRA è «il segno più forte che la contemporaneità lascia a Roma». Eppure, come ricorda Marco Pietrolucci, in una delle più accurate ricerche sulla complessa vicenda urbanistica del Grande Raccordo Anulare, «sia Italo Insolera che Leonardo Benevolo, i due maggiori studiosi di Roma moderna e contemporanea, non menzionano mai nei loro studi sulla città l’anello di Roma», nonostante l’assoluta eccentricità dell’opera, la sua originalità e il fatto di essere la sola grande struttura fisica di Roma che «non può avanzare pretese di immutabilità».
Ci ha pensato Fellini a raccontare in questa specie di vertiginoso elzeviro cinematografico l’insieme intermittente di frammenti urbani del GRA, una struttura che rimane ancora oggi, dopo molti lavori di consolidamento e ampliamento, «un ibrido infrastrutturale sospeso tra la dimensione locale, quella metropolitana e quella nazionale dove tutto si confonde e si mescola in assenza di progetto: una metafora perfetta della attuale condizione italiana». Dunque, una metafora perfetta di Roma.