Pubblicato il 9 Dicembre 2020.
di Liborio Conca
The Times They Are A-Changin ancora una volta, e così l’altro ieri Bobby Dylan ha venduto alla Universal il catalogo delle sue canzoni riportando a casa tutto quello che ha scritto tra il 1962-2020 e incassando 300 milioni tondi tondi, secondo quanto ha scritto il New York Times. Pare che fondi d’investimento e capitani di ventura abbiano da qualche tempo deciso di puntare i propri gettoni sul mercato dei copyright musicali, andando a pescare nella grande rete delle royalties. A pensarci, un bel tiro, considerando che siamo nell’era dell’iper-riproducibilità, e così ogni volta che una canzone di Dylan, Beyoncé o Calvin Harris (altri artisti che hanno svolto un’operazione simile a quella di Bob) verrà venduta o ascoltata in streaming o usata per spot e così via, ci sarà qualcuno da qualche parte che beccherà i suoi bei quattrini.
Insomma, quando c’è da far soldi La Grande Macchina Del Capitale non si fa troppi problemi a prendere sotto il proprio ombrello scritti e opere persino potenzialmente sovversive del genere Masters of War. Specialmente se a) di acqua sotto i ponti ne è passata veramente tanta e soprattutto b) viviamo in un’era dove il concetto di opera urticante è stato quantomeno ammansito. Non siamo negli anni Sessanta di Dylan e tantomeno nei tellurici anni Trenta a cavallo tra due guerre mondiali, il tempo di Herman J. Mankiewicz, l’uomo ritratto da David Fincher in Mank.
In una scena del film, ascoltiamo lo scrittore-sceneggiatore chiacchierare con due dei padroni della macchina da vapore hollywoodiana dell’epoca, i produttori Irving Thalberg e Louis B. Meyer. I due se ne stanno sotto una bella tenda da campo, come generali sulla scena di una battaglia, riparati dall’ombra, i volti riposati e gli abiti ben stirati in contrasto con le movenze irregolari di Mank. Quando quest’ultimo si allontana, Meyer chiede a Thalberg Ripetimi, chi era questo qui?, al che l’altro gli fa: solo uno sceneggiatore.
Di certo uno dei nuclei centrali di Mank, girato da Fincher sulla sceneggiatura del padre Jack e disponibile su Netflix, riguarda proprio questo, la scrittura. Più precisamente, la scrittura di un’opera complessa, e anche non proprio accomodante verso le alte sfere come poteva essere Quarto potere. E ancora: riguarda la scrittura e il rapporto con il denaro. Il perimetro che dovrebbe delimitare il compenso per un lavoro: una linea più oscillante che ben definita. La libertà e la coscienza di un artista. Gli scrittori e il rapporto con chi li paga. È Gary Oldman a dare il volto a questi tormenti; tre anni dopo Darkest Hour, rieccolo sdraiato a letto intento a dettare parole a una dattilografa, ora inarcando il sopracciglio, ora stiracchiandosi, gigioneggiando con un sarcasmo a volte brutale, spietato.
Negli anni Trenta Hollywood era un vero porto di mare per giornalisti, drammaturghi e scrittori intenzionati a mettere un po’ di soldi in tasca con il cinema («Ci sono milioni da guadagnare e i tuoi unici rivali sono idioti» è il telegramma che Herman Mankiewicz manda in giro per portare nel suo staff nuovi scrittori). Mankiewicz, già scrittore e critico per il New Yorker, seppure dotato di intelligenza e acume fuori dal comune, era uno dei molti. A bazzicare e lavorare per gli studios, a quel tempo, c’erano anche William Faulkner e due campioni dell’età del jazz come Francis Scott Fitzgerald e Nathanael West, l’autore di Signorina Cuorinfranti e del Giorno della locusta, nonché sceneggiatore di diversi lungometraggi per quella stessa RKO che produsse Quarto potere. Un bel gruppetto, non c’è che dire: Scotty e Mank con quella irrimediabile passione per gli alcolici, West attratto dai bolidi e dalla velocità. In una battuta il film di Fincher lascia intendere che le tendenze autodistruttive di Mankiewicz avessero colpito persino l’autore di Tenera è la notte («Ieri sera ero a una festa in cui Scott Fitzgerald parlava di te come di un uomo ormai rovinato», riferisce il fratello di Herman al telefono).
È del tutto probabile che i due uomini si siano davvero incrociati a uno di quei ricevimenti sfarzosi con il mondo di fuori intento a intraprendere la via dell’abisso. Magari nella maestosa residenza di William Randolph Hearst, il magnate intorno alla cui figura ruota Mankiewicz, a volte con le sembianze del topo in un gioco di ruolo che vede spesso Hearst nei panni del gatto. Hearst, un uomo per il quale a un certo punto della vita la disponibilità di enormi quantità di denaro non rappresentava certo un problema, appare nel film sinceramente sedotto dalla brillantezza di Herman. Sedotto dall’eloquio, dai ragionamenti raffinati e di tanto in tanto persino sfrontati dello scrittore che sa quando citare Pascal e quando Shakespeare. Fino a quando i ruoli sono rispettati, perlomeno. Io sono il gatto, e tu, Herman, il topo. Ma Mank sa anche quando citare «un tale di nome Cervantes», e certo il Don Chisciotte sa essere di quel genere urticante; e soprattutto sta prendendo mentalmente appunti, così da fare di Hearst la figura principale del suo capolavoro e contestualmente servire una vendetta dal sapore immortale.
Fitzgerald e West morirono uno a un giorno di distanza dall’altro, il 21 e il 22 dicembre del 1940, entrambi nei dintorni di Hollywood; il primo per un attacco cardiaco, il secondo in un incidente stradale. In Europa divampava la guerra di Hitler (in Mank gli echi di quanto stava accadendo nel vecchio continente sono ben presenti), mentre Herman Mankiewicz aveva ormai terminato di scrivere in una residenza isolata la sceneggiatura di Citizen Kane, uscito in Italia con il nome di Quarto Potere soltanto nel 1949: il protagonista ha certi inconfondibili tratti di William Hearst. A ingaggiare Mankiewicz era stato direttamente Orson Welles, il ragazzo prodigio di appena 24 anni, già titolare di una libertà compositiva senza precedenti. Nel film di Fincher, Welles assume spesso le sembianze di una figura fantasmatica, dal carisma inequivocabile. È indubbio che il regista di Mank abbia deciso di calcare la mano sul dualismo Mankiewicz-Welles; e come biasimarlo? I grandi dualismi fanno parte della storia dell’arte e della creazione, e se questo aspetto è uno dei motori di Mank di certo non è l’unico. Mi ha molto colpito come in seguito all’uscita del film gran parte dei commenti si siano concentrati su quanto raccontato da Fincher corrispondesse o meno alla realtà storica dei fatti (in una precisione del genere 100% accurato). Penso sia un approccio piuttosto ozioso. Di certo il ruolo avuto da Mankiewicz nella scrittura di Citizen Kane non è inventato, tutt’altro, e questo è un fatto nonché l’assunto di partenza del film di Fincher. Il resto fa parte della sceneggiatura, e ad essa deve rispondere la coerenza della narrazione; di sicuro non ai libri di storia, altrimenti l’Amadeus di Milos Forman sarebbe una patacca senza precedenti. Anche il racconto delle elezioni californiane del 1934, pure presente in Mank, va letto in quest’ottica: le speranze riposte da Mankiewicz nella vittoria dello scrittore progressista Upton Sinclair rispecchiano la sua avversione per l’establishment cinematografaro che – perlomeno nel racconto di Fincher – rappresenta il nemico dello sceneggiatore; un establishment saldato se non sovrapponibile con il gotha del Partito repubblicano.
A questo proposito, generalmente parto da un assunto piuttosto semplice. Ovvero: quando guardo un film, giudico/apprezzo/disprezzo in base a quello che vedo nelle due ore di proiezione; mi affido all’esperienza a cui sto assistendo, assicurandomi di aver chiuso bene la porta. È chiaro che questa chiusura non potrà essere impermeabile (per quanto una porta possa essere sigillata filtreranno sempre rumori di fondo, o luci dal di sotto) né equivalente a un reset cerebrale (a guardare/ascoltare ci sono io, e questo io altro non è che il risultato di centinaia di altre visioni, letture, ascolti); tuttavia, questo è il concetto, a mi interessa la coerenza interna dell’opera, quanto funzionano i dialoghi, l’estetica della fotografia, la colonna sonora, il grado di emozioni che mi arrivano.
Ed ecco, Mank arriva eccome. Ho amato le dissolvenze che lasciano svanire i volti dei protagonisti in chiusura di scena; uno dei tanti omaggi al cinema di Welles e degli anni Trenta. Ho amato il momento in cui Mank raggiunge Marion Davies su un rogo di scena, accendendole una sigaretta; e quando passeggiano nel lussuoso parco di Hearst, l’amante di Marion, con Mank che le recita i versi dedicati a Dulcinea. E ho subito il fascino della dialettica di Mank, il gusto per la battuta e il talento per le parole; e il fatto che alla fine il suo mulino a vento personale altro non è che la firma da apporre sotto una sceneggiatura; sotto una sua opera, per la quale aveva ceduto i diritti.
In tutto questo, dalle apparizioni di Welles sulla scena del film – che avvengano al telefono o in presenza – è indubbio come il ruolo riservato al regista di Quarto potere in Mank sia quello dell’antagonista, o poco ci manca. Ma è difficile pensare che questa sfumatura del film possa condizionare il giudizio pressoché unanime che riconosce in Welles uno dei geni del Novecento; e se diverse fonti lasciano intendere che fosse anche parecchio stronzo, oltreché genio, allora a maggior ragione non c’è niente di male se per questa volta le luci della ribalta sono andate a Herman J. Mankiewicz.