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SanPa, il confine della fiction e il fascino della storia: intervista a Gianluca Neri

gianluca neri

Pubblicato il 8 Febbraio 2021.

di Clara Miranda Scherffig

Accolta con grande entusiasmo come la prima docuserie italiana di Netflix, SanPa non solo è riuscita a corrispondere le aspettative di critica e spettatori, ma è anche la prima creatura di una casa di produzione nuova di zecca, Quarantadue, fondata nel 2019 proprio per la realizzazione della serie.

A capitanarla è Gianluca Neri, già creatore di “esperimenti” mediatici italiani esemplari—come i Macchianera Awards o il portale Clarence—e autore per la radio e la tv. A partire dall’originale carriera di Neri, ci è sembrato importante tracciare il percorso produttivo alle spalle di SanPa, approfondire i termini della collaborazione con la piattaforma nonché scoprire quale altri progetti siano in lavorazione. Soprattutto abbiamo voluto interrogarci sul grande irrisolto del piccolo (come grande schermo): perché drammatizzare la storia italiana recente è così difficile? Quella che segue è una versione condensata della lunga chiacchierata con Gianluca Neri, che ringraziamo.

Hai cominciato con la carta stampata da Cuore. Poi c’è stato internet con Clarence, il Macchianera del blog e degli awards. Sei stato autore per la tv e la radio. Adesso la serialità su una piattaforma globale. La tua carriera mi sembra descrivere bene l’evoluzione che c’è stata nel modo di fare e fruire informazione e storytelling. Come collochi il tuo percorso in questo senso?

Sono sempre stato curioso fino all’ossessione. Mi ero iscritto a giornalismo ma quando sono entrato a Cuore per me era già fatta. È stata un’esperienza pazzesca per quanto riguarda lo storytelling, perché in un giornale di satira—e oggi purtroppo non ce ne sono—devi far ridere, far pensare, oltrepassare confini morali. Quando ho scoperto internet, ho aperto un BBS perché volevo sperimentare l’idea di collegarsi agli altri con dei computer. Finita l’esperienza di Cuore, c’è stata Clarence: era un portale ma ci siamo inventati un modo di proporlo. Abbiamo preso spunto da La vita è meravigliosa, con i suoi personaggi, la sua città, i suoi punti d’incontro. Era un misto fino ad allora inedito di informazione, satira e community. Siamo stati fortunati a capitare durante la bolla della new economy, siamo partiti piccoli ma poi siamo finiti ad avere colloqui con Mediobanca o Braclays.

Però immagino più “Cuore sbarca sul digitale” che gruppo di giovani rampanti tipo Silicon Valley col coltello trai denti.

Eravamo veramente come Totò e Peppino con la valigia con lo spago. Però finimmo sulla copertina di Sette con il simpatico titolo “Noi siamo miliardari. E tu?”, che ci ha fatto odiare per credo tre generazioni. Ma è stato divertente e siamo riusciti a venderla a una multinazionale. Era un periodo in cui tutti volevano investire. Ne abbiamo approfittato. Dopo un po’ siamo usciti perché non eravamo più padroni. Ci siamo chiesti: e ora che facciamo? Io ho aperto un blog che all’inizio si chiamava The New Economy e poi è diventato Macchianera. Lì è iniziata la Festa della Rete, che c’è ancora, i Macchianera Awards e il blog che ha lanciato Selvaggia Lucarelli, Makkox e altri. Però tutto sempre fatto molto… come dire, nel tempo libero. Non lo vedevo come un lavoro, ecco. Nello stesso periodo sono arrivate la radio e l’esperienza di Camera Cafè. Infine, dopo aver visto la docuserie Making of a Murderer, SanPa. Netflix stava per sbarcare in Italia, quindi ho immaginato che ci sarebbe stata fame di storie italiane, avvincenti, da produrre qui. Ne ho preparata una, sull’omicidio di Yara Gambirasio, e sono andato parlarne a tutte le case di produzione che conoscevo. Essendo molto pignolo avevo fatto una presentazione bellissima.

Quindi un pitch molto strutturato?

Avevo già previsto ogni puntata, ogni personaggio, l’arco narrativo, tutto. Tanto che nelle ricerche mi era capitato di trovare una prova che non era stata presentata al processo. Il problema è la curiosità, non altro. Veniva detto che Bossetti avesse ucciso e lasciato Gambirasio per tre mesi nel campo. Mi ero chiesto: “ma gli avvocati dell’accusa e della difesa avranno controllato le foto satellitari?” Cerco e trovo un satellite con una risoluzione di 30 cm da terra. Quindi compro la foto e nel campo non c’è nulla. Contatto la difesa per dargliela e questo mi consente di assistere al processo d’appello dalla panca numero 2, come consulente, invidiato da tutti gli altri giornalisti. Ho avuto anche accesso a tutti i faldoni dell’inchiesta, che è servito molto a rendere ancora più intrigante il racconto. Alla fine arrivo direttamente a Netflix tramite Nicola Allieta, che adesso è in società. Loro dicono “facciamolo”, però siccome era uscito un documentario quasi sullo stesso tema poco prima, mi chiedono se ho un’altra idea. Spunta SanPa. Così ho creato Quarantadue, con Marco Tosi a gestire la parte commerciale. Abbiamo iniziato a produrre SanPa come una casa di produzione vera mentre in realtà debuttavamo. Avendo visto un sacco di serie—io ho imparato l’inglese guardando le serie pirata—

Scusa, ti interrompo perché è un punto a cui volevo arrivare anche io. Nei primi Duemila ci si riconosceva tra simili che guardavano le serie americane scaricate illegalmente. Anche grazie alla comunità fanbase di sottotitolatori anonimi questa pratica si è diffusa, poi si è istituzionalizzata e ha fatto sì che il pubblico sviluppasse uno sguardo abituato—

A un altro modo di fare le cose.

Esatto. Ma negli anni a seguire ho anche notato una certa omologazione, una certa saturazione tematica ed espressiva, di cui le grandi piattaforme sono anche responsabili. Come situavi Quarantadue e il tuo ruolo di produttore in questa parabola?

Rispetto al panorama italiano la regola è molto semplice: tiriamo fuori idee che ci sono balenate nel cervello nel corso degli anni e di cui abbiamo detto “questa non me la faranno fare”. Per vari motivi: politici, di budget… immaginati se dieci anni fa qualcuno fosse andato da Mediaset a proporre Dexter o Breaking Bad. Per l’estero, la cosa bella è che certe storie in Italia non sono mai state raccontate. Vorremmo coprire la fame che c’è e non solamente col documentario. In progetto abbiamo film, serie fiction—però con l’idea di sfruttare il cambiamento di percezione, ed emulare le cose belle viste.

Se penso ai molti tentativi di rappresentare episodi della Storia italiana mi sembra si faccia sempre fatica a drammatizzare il reale.

Dopo aver visto Making of a Murderer rimango a bocca aperta esattamente come alla fine della prima puntata di Lost: mi rendo conto che non è un documentario, ma che è stato utilizzato il linguaggio delle serie per raccontare un fatto vero, con un cliffhanger, gli atti e tutto il resto. Da un certo punto di vista se hai una bella storia il gioco è abbastanza facile.

Solitamente sono scettica nei confronti delle serie di Netflix, mentre in SanPa ho visto figure articolate, persone che non sono delle macchiette ma individui empatici, realistici, non viziate da un’intelaiatura emotiva derivante dall’impacchettamento del prodotto.

Noi abbiamo fatto le domande, ma abbiamo anche ascoltato tanto. Volevamo fossero loro stessi. Molto spesso nei documentari si fanno ripetere le frasi per dirle meglio, noi non l’abbiamo fatto ed è stata una buona idea perché i personaggi sono stati molto più reali nel rispondere. Abbiamo preferito una balbettio in più piuttosto che avere la frase perfetta.

Uscire il 29 dicembre in streaming durante una pandemia è po’ come se aveste vinto il ruolo di cinepanettoni, cioè grande investimento e aspettativa di pubblico. Ma fino a che punto Netflix si è spinta nell’avanzare veti? Avevate voi il final-cut?

Nel momento in cui è stato approvato il progetto non ci sono state ingerenze di nessun tipo. Poi tutte le scelte di quando andare in onda spettano a loro. Abbiamo trovato che fosse buona come scelta anche se per molti non lo era.

Finito SanPa mi è venuta una specie di crisi d’astinenza, forse esperienza comune per chi è abituato a binge-watching… Mi sono rivista Le notti della Repubblica di Sergio Zavoli ed è l’unica cosa che mi ha un po’ placato. Se in letteratura ci sono più e frequenti casi, sull’audiovisivo diventa sempre un po’ problematico trovare dei contenuti che soddisfino questa sete in modo articolato e non banale.

Per un certo periodo c’è stato Lucarelli con Blu notte, nessuno aveva mai raccontato queste cose con quel linguaggio. Poi mi sono sempre chiesto perché la popolarità di quei programmi è andata un po’ scemando. Mi ha sempre dato fastidio che il crime fosse diventato un argomento per le trasmissioni del pomeriggio. Invece in quelle storie puoi trovarci degli spunti che riguardano le vite di tutti. Bisogna avere anche uno sguardo laterale sul fatto, perché ad un certo punto non stai raccontando solo il fatto in sé o quanto è cruento, ma come possa cambiare la vita delle persone in quell’ambiente.

Avrete altre collaborazioni con Netflix?

Ci piacerebbe lavorare con tutti. Abbiamo molte idee, non credo che possano andare tutte a uno. Peraltro lavorare con tanti ti fa fare nuove esperienze. Bisogna essere abbastanza ecumenici.

Parlando del futuro, intercetto il desiderio di esportare queste storie. Sbaglio?

Ci siamo dati l’obbiettivo di raccontare tutte storie esportabili, che finissero con un grande broadcaster in grado di spingerle nel modo giusto. Una storia che al momento può essere capita solo in Italia non abbiamo interesse a produrla.

Anche SanPa è stato fatto in quest’ottica?

Assolutamente. Certe cose abbiamo dovuto saltarle. Citare “L’Unità”, ad esempio: in Italia viene data per assodata mentre per l’estero avresti dovuto spiegarla. I politici li abbiamo fatti vedere ma non li abbiamo spiegati. C’era la scena all’Hotel Raphael, delle monetine tirate a Craxi: per un italiano è iconica, uno straniero vede uno che esce dall’albero, una folla che gli urla e tira delle cose che non sai cosa siano perché non si vedono. Avremmo potuto anche spiegare chi era Craxi, cos’era il partito socialista… ma non avevamo il tempo. Ad un certo c’è stata l’esigenza di non spiegare dettagli molto italiani.

Come se aveste beneficiato della tendenza “semplificatrice” dei broadcaster internazionali, da una mentalità un po’ più sintetica come può essere quella americana?

Sì, perché alla fine si riesce a raccontare la stessa storia senza andare fuori tema. Poi chi vuole può approfondire. C’è gente che mi ha detto: “Dal 30 dicembre non faccio altro che ricercare cose su San Patrignano”. È quello che faccio anche io, tipo buttarmi su Reddit e leggere cosa dicono i complottisti…

Questo approccio è una cosa quando si parla di doc o serialità, mentre per lungometraggi e/o fiction è un’altra cosa. Avete progetti di quest’ultimo tipo?

Ci sono varie cose. Anche se abbiamo cominciato con un documentario, le persone che lavorano a Quarantadue hanno anche fatto fiction. Anche io. Ci sono alcune storie che possono essere raccontate meglio tramite un documentario, altre storie invece meglio con una fiction.

Qual’è il tuo discrimine in questo senso? C’è una scientificità in questa affermazione?

Una storia come SanPa secondo me è molto difficile da raccontare in una fiction. Innanzitutto perché dovresti prendere una posizione. Nel doc hai un processo, hai delle persone che testimoniano, hai i pro e i contro, non hai le stesse certezze che devi dare in una fiction. Se poi usi Nome e Cognome, non me la sento di semplificare una vicenda in un personaggio che magari è la composizione di altri tre. Invece ci sono molto vicende che possono essere raccontate con un lungo. Uno dei nostri progetti più impegnativi è questo episodio dalla vita di Vittorio De Sica. Prima di diventare famoso girò un film salvando dei dissidenti comunisti ebrei, assegnando a ciascuno delle mansioni all’interno del film—uno diventava microfonista, l’altro direttore della fotografia. Continuò a girare in attesa degli americani, anche se la pellicola era finita. Questa storia va fatta in grande, è quasi una favola. Non c’è altro modo. Se dovessi raccontarla con un doc avrei solo delle teste parlanti.

Rincuora sapere che avete in cantiere anche lungometraggi, perché la speranza è di vederli al cinema. Da persona che ha lavorato con internet in senso più tecnico e concettuale, come vedi la convivenza tra piattaforme e sale cinematografiche?

È un mondo che sta cambiando drasticamente e ormai ha cambiato tanti settori. Per quanto riguarda il cinema io credo che sia un po’ come il libro. Ci sono molte persone che vogliono quella esperienza, non solo vedere un film ma anche condividerlo con degli estranei, sentire in tempo reale le risate o i pianti. Di viverlo al di fuori della propria casetta. Noi ci siamo dati l’obbiettivo di produrre delle cose che possano essere fruite ovunque: al cinema e in tv. L’esigenza è quella di raccontare delle storie—per me potrebbero anche proiettarle sui palazzi. Ovviamente il cinema ha quel fascino che… come fa ad andar via?  Se per assurdo dovessero chiudere tutti, i cinema verranno rimpianti, sarebbe un posto dove non puoi più andare. E non è che casa tua lo sostituisca, perché non c’è quella dimensione di comunità.

 

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