Pubblicato il 8 Aprile 2021.
di Stefano Scanu
La pala della ruspa abbatte prima il soffitto a volta poi le pareti che si sbriciolano senza troppa fatica insieme a due murales di Jerico e infine tutto quello che c’è dentro. Pezzo a pezzo viene giù la galleria, la platea, la cabina di proiezione, il palco e lo schermo che collassa sui seggiolini di legno reclinabili. L’edificio traballa e scrocchia, si alza una nube caliginosa mentre due operai sono impegnati a districare la matassa di tende fonoassorbenti che si è impigliata attorno al braccio della gru. Poche ore dopo del cinema non resta che l’atrio scoperchiato, la biglietteria e l’insegna Harlem. Dalla chiusura dell’attività alla prima picconata del marzo 2021 sono trascorsi quarant’anni esatti, e in tutto questo tempo la sala è rimasta silenziosa e abbandonata in questa parte remota di Roma, come un monumento all’intrattenimento che fu.
Labaro è una borgata nel nord estremo della città che conosce solo chi ci è nato, appena fuori dal Gra che la sfiora rumorosamente. Tra le altre cose ci sono una chiesa, una casa di cura, qualche supermercato, dei bar, un meccanico, una sarta, un forno, una biblioteca, un’edicola, un trenino che porta fino a Piazzale Flaminio e non lontano un sito dove pare siano stati ritrovati i resti di un mammut che si contende con Tor di Quinto da una vita. E poi c’è il Tevere che da queste parti lambisce la via Flaminia e ogni tanto la allaga, su cui sorgono delle fornaci rosse con le ciminiere ormai fredde che svettano nel cielo come in Animals dei Pink Floyd, le vedevo chiaramente dalla finestra della casa in cui sono cresciuto.
Labaro è tranquilla, pacifica, senza grandi slanci né depressioni, nella media insomma, la mattina si svuota rapidamente e la sera si ripopola con la stessa velocità. Il cinema più vicino adesso è il multisala del centro commerciale Porta di Roma oppure l’Odeon di Vigna Clara; in una direzione o nell’altra bisogna comunque percorrere circa nove chilometri di strade ad alto scorrimento. Gli operai giù al cantiere dicono che al posto dell’Harlem costruiranno un condominio, proprio come accadrà con il piccolo fabbricato siderurgico che gli è accanto e come già è successo con il bar, il negozio di generi alimentari e il salone di bellezza che operavano a pochi metri da lì. Stessa sorte è toccata anni fa pure alla scuola elementare con cui il cinema confinava; ricordo ancora l’eco delle proiezioni che copriva la voce della maestra durante le matinée del mercoledì. Sembra che piuttosto che saldare, bere un caffè, fare la spesa, tagliarsi i capelli e istruirsi, ciò che conta sia esclusivamente un posto in cui vivere o forse solo dormire.
Il cinema Harlem inizia la sua programmazione nel 1961, in sordina, sgomitando in mezzo a una bolgia di oltre 150 sale. Il 28 gennaio di quell’anno fa la sua prima apparizione sul paginone degli Spettacoli dell’Unità: dopo i richiami dedicati ai teatri, ai concerti, al circo, alle attrazioni, al varietà, ai cinema di prima visione, di seconda e perfino a quelli parrocchiali, fa capolino, stretto tra il cinema Faro e l’Iris, nella ressa delle terze visioni; non indica nessun film, solo l’avvertenza di prossima apertura.
Il resto del foglio se lo prende il Festival di Sanremo: c’è una foto di Tony Dallara che urla a occhi chiusi, una di Milva, e poi Gino Paoli senza smoking, Celentano che dà le spalle al pubblico e Mina che piange e scappa dal palco perché per la prima e unica volta in vita sua ha steccato una nota. Poco più in fondo i programmi tv: tre canali in cui il segnale orario e Carosello fanno avanguardia. Passa qualche giorno senza che succeda granché, poi il primo febbraio l’apertura da prossima diventa immediata; intanto negli altri cinema proiettano La ciociara, Tutti a casa e Spartacus, a Ponte Marconi aprono i cancelli del nuovo cinodromo e sulle prime pagine dei quotidiani Fidel Castro e Kennedy innescano i prodromi di quella che sarà l’invasione nella baia dei Porci.
Il 23 febbraio del 1961 l’Harlem fa un salto dalla terza alla seconda visione annunciando una imminente inaugurazione poi più nulla, nessuna comunicazione. Passano settimane e poi mesi, Jurij Gagarin viene sparato nello spazio, Bob Dylan esordisce in un club del Greenwich Village e a Roma inizia il processo per atti osceni ad Aïché Nana, la ballerina che improvvisando uno spogliarello in un ristorante di Trastevere diede ufficialmente inizio alla stagione della dolce vita. Finalmente il 20 giugno l’Harlem batte un colpo, sotto il nome e l’indirizzo scrivono in grassetto: sabato inaugurazione, e così è.
Il primo luglio il foyer si affolla di gente che sorseggia Biancosarti e suda aspettando di entrare in sala, bisogna occupare oltre duecento posti e per riuscirci viene scelto un film popolare, La rivolta degli schiavi, un peplum italospagnolo tutto muscoli e sentimenti dove accanto a Gino Cervi fa la sua parte un giovane Serge Gainsbourg. Sembra una scelta scellerata quella di inaugurare una sala d’estate ma erano altri tempi, quello stesso giorno il quotidiano del Partito Comunista pubblica un rapporto della Siae in cui secondo i dati gli italiani avrebbero speso oltre 212 miliardi di lire in spettacoli vari, ed è un trend in crescita. l’Italia si arricchisce e c’è desiderio di svago, i giornali raccontano di Salazar che fa stragi in Angola, di guerra fredda e di Hemingway che si suicida con un colpo di fucile, molto meglio andarsene al cinema.
La programmazione dell’Harlem non trova pace, cambia film quasi ogni giorno, anno dopo anno, sulla bacheca passano più o meno tutti gli eroi e gli antieroi del cinema e gran parte della commedia italiana: Zorro al galoppo Nella valle dei fantasmi, Gassman che divora l’Aurelia in spider ne Il sorpasso, Sordi pizzardone, e poi caterve di Franco e Ciccio che fanno il verso ai classici, Alvaro Vitali che fissa allupato la maestra, er Monnezza, Bombolo e la Squadra antiscippo, antitruffa, antifurto e così via, passando per Fantozzi fino a Carlo Verdone, anzi fino a Gene Wilder che a Mezzogiorno e mezzo (di fuoco) di domenica 13 dicembre del 1981, al ragionevole costo di 1500 lire, seppellisce l’Harlem con la sua risata una volta per tutte.
Il lunedì successivo sul giornale in prima pagina c’è una foto di Spadolini, una di Gheddafi e poi le prove di distensione tra Germania Est e Ovest accanto alla notizia sulla morte del terrorista nero Alessandro Alibrandi detto Alì Babà, in uno scontro con le forze armate, proprio qui, a Labaro. A pagina 15 nelle visioni successive, tra la sala Etruria e il cinema Induno, non c’è più nulla, solo uno spazio bianco. Quarant’anni dopo tirano giù una anche l’edificio, un altro spazio bianco in attesa che costruiscano un nuovo posto in cui vivere o forse solo dormire.