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La fotografia de “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose”: intervista a Valerio Azzali

valerio azzali

Pubblicato il 18 Dicembre 2020.

di Ludovico Cantisani

Valerio Azzali, direttore della fotografia di talento, ha lavorato in film come  Amori che non sanno stare al mondo (2017), L’ordine delle cose (2017), Metti la nonna in freezer (2018). L’ultimo suo lavoro è L’incredibile storia dell’isola delle Rose, il film di Sidney Sibilia con Elio Germano, Matilda De Angelis, Leonardo Lidi, Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti. La nostra intervista ruota proprio intorno al film che racconta l’originale utopia libertaria dell’ingegnere bolognese Giorgio Rosa.

Qual è stata la tua formazione? Quali film hanno preceduto L’incredibile storia dell’Isola delle Rose?

La mia è stata una formazione abbastanza classica: ho avuto la fortuna di entrare al Centro Sperimentale e fare là tre anni di studi nel 2001-2003. Finiti gli studi, ho iniziato come video assist di Emilio Loffredo che era uno dei miei insegnanti al Centro e che mi ha offerto il mio primo lavoro non appena diplomato. Su uno dei miei primi set ho incontrato anche Duccio Cimatti, che era un operatore di macchina ma in quel momento stava iniziando a fare da direttore della fotografia e mi ha preso come suo aiuto operatore: con Cimatti ho lavorato per sei anni, prima come aiuto operatore poi come assistente; ho collaborato anche con altri come Gianni Fiore, poi sono passato in macchina. La mia “gavetta” è stata quella tradizionale, che permette di apprendere lavorando a fianco dei direttori della fotografia più maturi e di comprendere le necessità del ruolo, di essere contemporaneamente comprensivo e conscio di quelle che sono le dinamiche di ripresa e i metodi di lavoro dei colleghi. Il mio primo film in cui ho curato la fotografia totalmente io è stato Amori che non sanno stare al mondo di Francesca Comencini; prima avevo fatto la serie Solo, per la regia di Michele Alhaique, e prima ancora avevo fatto direttore della fotografia di seconda unità in altri film.

Sydney Sibilla con la sua precedente trilogia Smetto quando voglio aveva contribuito ad espandere l’immaginario della commedia italiana. Come lo hai conosciuto? Come sei stato coinvolto nel progetto?

L’incontro con Sydney è stato molto professionale: mi ha chiamato lui dopo aver visto alcuni miei lavori per fare un colloquio per il suo successivo film dopo i tre Smetto quando voglio. Ho fatto un primo colloquio con lui così come credo abbiano fatto anche altri colleghi; mi ha richiamato per un secondo incontro, io gli ho detto cosa avevo pensato a livello fotografico dalla prima lettura della sceneggiatura, e credo gli sia piaciuto perché mi ha confermato il lavoro.

Come si è svolta la preparazione del film, soprattutto per quanto riguarda la  celta del tono visivo? Con quale macchina da presa è stato girato L’isola delle rose e con quale set di lenti?

C’è stata una lunga preparazione perché il film era importante e richiedeva una certa cura in pre-produzione. La preparazione tecnica è stata composta da tantissimi sopralluoghi, soprattutto a Malta, perché la definizione dell’isola nella sua forma ma soprattutto nella sua posizione all’interno della piscina dove abbiamo girato è stata oggetto di un lungo dibattito in cui ognuno esprimeva le sue necessità – per quanto riguardava me, le necessità riguardavano soprattutto l’esposizione alla luce del sole della piscina. Il test delle varie possibili macchine da presa ha preso un certo tempo e vi è stato coinvolto anche Sidney, perché volevamo affrontare le riprese di un film d’epoca in una maniera molto impegnativa. Di solito se fai film d’epoca o celi la modernità limitando il campo visivo, o inquadri il più possibile ricostruendo e ricreando in digitale. Sidney ha scelto la seconda opzione e ha optato per avere la massima capacità visiva possibile della macchina da presa, per cui avevamo bisogno di ottiche larghe e del sensore più grande possibile: L’isola delle rose è stato girato quasi tutto con obiettivi anamorfici Master da 30mm, 40mm e 60mm, vale a dire sempre con il grandangolo, anche quando stavamo vicino agli attori, per non perdere mai background. Trovavo questi obiettivi anamorfici bellissimi ma anche molto eleganti e puliti, senza grandi deformazioni e cadute di fuoco, il che ha facilitato molto la resa del look anni sessanta – non mi sono ispirato a un’”idea” degli anni sessanta, ma a quello che ho visto io con film d’epoca, fotografie e documenti storici: prima de L’isola delle rose ho rivisto Ildisprezzo di Godard più volte per fare un esempio, e mi sono accorto che, contrariamente a quello che si può pensare i film degli anni sessanta hanno un rigore visivo molto interessante. Per quanto riguarda la scelta della macchina da presa, noi abbiamo fatto vari camera test, provando l’Alexa Large Format, la RED Monstro, la RED Gemini e la Sony Venice. Erano tutte macchine da presa molto interessanti, ma per il nostro lavoro la Arri Alexa era quella che si sposava meglio: il film ha un 70% di esterni giorno e l’Alexa ha un ottimo incarnato anche in queste condizioni di luce. Logaritmico si prestava benissimo anche per gestione in esterna del blue screen. Con Massimo Proietti del rental Panalight siamo riusciti ad allungare un po’ la serie dei Master Prime. Fortunatamente il budget ci ha consentito tutte queste sperimentazioni.

Quante settimane sono durate le riprese del film?

L’Isola delle Rose ci ha richiesto ben undici settimane di riprese, abbiamo iniziato a settembre 2019 e abbiamo fatto il cosiddetto “wrap”, la fine delle riprese, il 5 dicembre. C’è stato poi un ultimo giorno fuori piano parecchio più in là, in estate, appena dopo il lockdown, che è la scena in esterna a New York, davanti al Palazzo di Vetro dell’ONU, quando arriva il postino con la macchina e porta il pacco con la richiesta di riconoscimento dell’indipendenza dell’Isola delle Rose. Quella scena in realtà è stata girata non a New York ma al piazzale del Palaghiaccio di Marino, con molti blue screen, macchine finte, un marciapiede e un gabbiotto.

Uno dei primi ambienti che si vedono nel film è il Consiglio d’Europa, illuminato con colori molto più freddi rispetto a quelli che caratterizzano il resto del film, narrato in flashback. Dove sono state girate queste scene? Con quali luci hai illuminato il set?

L’idea generale era quella di differenziare fotograficamente, pur mantenendo coerenza e continuità, il Consiglio d’Europa di Strasburgo, il Consiglio dei Ministri di Roma e l’Isola delle Rose. Il Consiglio d’Europa l’abbiamo girato in interni, a Roma, all’EUR e all’Ospedale degli Invalidi a piazza Cavour; l’esterno che si vede come prima scena invece è Cogne, in Val d’Aosta, dopo una copiosa nevicata: stavamo a Bologna, abbiamo saputo che lì c’erano stati 2 metri di neve e siamo corsi a girare quella scena, che però è stata più difficile del previsto perché ha iniziato a diluviare e si era formato un acquitrino di ghiaccio e acqua molto bello da vedere nel film ma piuttosto scomodo per lavorarci dentro! Nelle scene ambientate al Consiglio d’Europa la scelta cromatica è evidente: restituire il freddo invernale di una città come Strasburgo; il raccordo con l’interno, girato a fine agosto a Roma, è stato più impegnativo perché dovevo immaginare, prima di averlo girato gli esterni, la luce che proveniva da fuori; alla fine ho pensato di caratterizzare gli interni di Strasburgo con delle luci a scarica anche molto impegnative – 18000 K agli Invalidi e 9000 all’EUR – mantenendo una temperatura colore piuttosto bassa, per dare una sensazione di freddo e di non-contrasto, di assenza del sole. Per accentuare la sensazione di freddo abbiamo caricato le luci artificiali con una gelatina particolare con cui ho fatto rivestire tutti i bulbi anche delle luci diegetiche, vale a dire delle luci che si vedono all’interno delle inquadrature, come le lampade e dell’abatjour. Quella gelatina ci dava colore un po’ rossiccio che mi piaceva, perché volevo avere una base magenta su tutto i film, come accade alle fotografie dell’epoca: dietro le vetrate ci sono luci rossastre, senza gelatina sarebbero state molto più sbiadite.

Di tutt’altra luminosità sono gli interni della locanda bolognese dove Giorgio Rosa e l’amico Maurizio Orlandini festeggiano la laurea. Come hai collaborato con il reparto scenografia per disegnare le luci diegetiche, le lampade a cono che decorano i muri della locanda? Quali erano le altre fonti di luce artificiali fuori campo?

Il lavoro con Tonino Zera, lo scenografo, è stato stupendo, perché c’è stata una sinergia continua su tutti gli ambienti e su tutte le situazioni. L’idea era quella di creare uno stacco visivo immediato: iniziare un film in un ambiente freddissimo e appena il personaggio di Germano inizia a raccontare trasportare lo spettatore in una luminosità calda, accogliente. La locanda bolognese che si vede nel film è in realtà l’ex-birreria Peroni a Roma, a piazza degli Apostoli. Anche lì ho cercato di mantenere un filo di continuità con il resto del film per quanto riguarda il magenta: la luce è molto calda, al contrario delle scene a Strasburgo, ma ci sono sempre dei tagli rossastri-rosati, grazie alla gelatina che avevo scelto e stava su tutto il film. La gelatina mi dava la base della dominante dell’epoca, mentre la diffusa e il colore generale mi differenziava le zone geografiche, Roma, Strasburgo e l’isola.

Nella mia testa L’incredibile storia dell’isola delle rose era diviso per colori: la Bologna degli anni sessanta, dove ci sono tanti esterni notte, è rossastra, e abbiamo cercato di dare l’impressione che fosse illuminata da luci al sodio, un tipo di illuminazione che invece nei nostri giorni sta sparendo sempre di più nelle città. Per le scene girate in esterna a Bologna sono stati molto utili gli effetti speciali: abbiamo girato anche a piazza Santo Stefano, dove adesso c’è un ampio reticolato di luci a LED che quasi copre il cielo agli occhi dei passanti. Noi abbiamo usato le luci a LED come una luce diffusa dall’alto, ma in post-produzione attraverso effetti visive abbiamo cancellato quel reticolato dall’immagine e abbiamo caricato di luci al sodio gialle tutti i sottoportici, in modo da creare una coerenza visiva con l’epoca.

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La scena in cui Giorgio racconta a Maurizio della sua idea di costruire un’isola galleggiante nelle acque internazionali all’interno di un vecchio deposito di navi. La scena si apre con un movimento di macchina solido e deciso che da lontano si avvicina ai due personaggi, sollevandosi per seguire il movimento dello scafo della nave. Avete trovato un vero deposito di navi o l’ambiente è stato ricostruito in studio? Come era montata la macchina da presa per l’inquadratura iniziale?

Questa è una delle mie scene preferite del film. Il set del cantiere era vero, e stava a Malta. Avevamo trovato quel set grazie a una coincidenza fortunata mentre stavamo facendo i sopralluoghi, come spesso accade: noi eravamo andati a vedere cantiere di fronte, dove poi avremmo girato le scene nel cantiere dei genitori di Maurizio, e cercavamo una rimessa dove lui e Giorgio dovevano andare a parlare lontano dagli occhi del padre del primo. I proprietari del cantiere ci hanno aperto a un certo punto questa rimessa, dove Tonino ha inserito una bellissima barca d’epoca sostituendo un gommone moderno parcheggiato lì. Sidney, vedendo le lampade in sospensione che si vedono anche nella scena finita, ha avuto la bellissima idea di chiedermi di fare dei movimenti con la luce in modo che si sentisse presenza del vento anche in interni: allora abbiamo ricostruito l’impianto elettrico del posto, inventando un sistema di fili per far muovere le luci e aggiungere realismo alla scena. Per quel movimento iniziale, la macchina era montata su un modular crane – vale a dire un braccio meccanico – che ci ha permesso di partire bassissimi e arrivare sulla prua a raggiungere gli attori, usando come testata remotata un Ronin 2.

Il flashback che esplora il passato del personaggio di Neumann è ambientato fra gli stabilimenti balneari della riviera romagnola, con qualche eco se vogliamo della Rimini felliniana. Il set è stato interamente ricostruito o siete partiti da una struttura già esistente? Su quale supporto era montata la macchina da presa per fare gli ampi movimenti di macchina che caratterizzano questa scena e come hai gestito il rapporto fra luci diegetiche e luci di set?

Siamo partiti da un ambiente reale, ma che non sta a Rimini. Nelle vere Rimini e Riccioni abbiamo girato appena due giorni: le due scene principali girate lì sono quella in cui Giorgio e Maurizio mangiando una piadina vedono passare una nave cargo e hanno l’intuizione di far galleggiare i tubi, e poi la scena, poco prima della distruzione dell’Isola delle Rose, quando arrivano tutti i giornalisti sul lungomare, che è chiaramente girata a Rimini perché alle loro spalle si vede il famoso Grand Hotel. Le scene invece ambientate sulle spiagge del litorale romagnolo sono state girate o a Malta, facendo un muraglione di blue screens al posto dei quali aggiungere, in fase di post-produzione, i palazzi tipici del lungomare di Rimini, oppure al Circeo, come la scena in cui Giorgio esce dal ristorante dopo aver pranzato con i genitori e incontra gli agenti del SID. Anche il flashback su Neumann è stato girato sul litorale romano, ad Anzio: siamo partiti da un vero locale sul lungomare che si chiamava “Ristorante Tirreno”, e a cui noi abbiamo dovuto sostituire l’insegna perché Rimini dà sull’Adriatico, Tonino ha dovuto fare una rotonda di ballo e il resto è stato aggiunto in CGI; il movimento di macchina di quella scena era piuttosto complesso perché doveva partire dal cantante, passare sopra la testa dei ballerini, allontanarsi e chiudere con un’inquadratura ambia della rotonda di ballo e del ristorante, e abbiamo usato un crane di 9 metri, più grande del modular crane.

Una parte importante delle scene del film è ambientata sulla piattaforma galleggiante che davvero nel 1968 Giorgio Rosa e Maurizio Orlandini costruirono a largo di Rimini, di cui vediamo anche la costruzione e la distruzione. Girare in acqua è notoriamente difficile: prima hai accennato al fatto che queste riprese si sono svolte a Malta, puoi spiegarci meglio come era allestito il set? Per i campi più larghi, dove posizionavate la macchina da presa? Come gestivi la luce per i diversi momenti del giorno?

A Malta ci sono degli studios conosciuti dove molti film, anche americani, sono stati girati: hanno una piscina molto profonda per fare riprese subacquee e una meno fonda per fare le riprese al di sopra l’acqua; siccome queste due piscine sono messe su due promontori, da una certa angolazione l’acqua delle vasche sembra unirsi all’orizzonte unendosi naturalmente al cielo, con un effetto molto bello e realistico. Siccome dunque la piscina ha un lato che dà verso il mare e tre che dà verso terra, noi abbiamo dovuto coprire di blue screen tre lati su quattro di una piscina di 122 metri per 91, che è stato un lavoro notevole.  La piscina era circondata dall’acqua ma abbiamo portato l’isola più vicina a una sponda affinché io con le gru potessi intervenire sia per coprire il sole con grandi coperture di seta, sia per illuminare artificialmente. La difficoltà che le piscine di Malta comportano a un direttore della fotografia è molto basilare: tu stai fermo in un posto con il sole che ti muove, e devi mantenere la continuità; in più le piscine sono esposte a nord verso il mare per sfruttare la luce piatta per gli effetti visivi, ma noi dovevamo girare a 360 gradi. Io ovviamente non volevo girare sempre e comunque con la luce piatta, perché narrativamente parlando non la trovavo giusta per molte scene, e quindi ci siamo dovuti confrontare bene tutti sulle scelte di illuminazione di volta in volta necessarie. A me serviva fondamentalmente la possibilità di prolungare la stessa luce su tutto l’arco della giornata per non perdere la continuità visiva di una scena – per dire, il finale del film è stato girato lungo 7 giorni che dovrebbero avere sempre la stessa luce. Per fare ciò è stato necessario imporre uno schema tecnico di posizionamento della piscina rispetto al movimento sole e alle scene previste dal piano di lavorazione. Abbiamo usati spesso il modular crane e il ronin anche per le scene ambientate sull’Isola: ci appoggiavamo su zattere spinte da gommoncini su cui era montato fisso il crane, e ci spostavamo su zona necessaria per inquadratura.

Cosa mi dici invece della scena della tempesta che si abbatte sull’isola? quali margini di intervento hai avuto a livello di luci?

La scena della tempesta ovviamente è stata anch’essa girata nelle piscine di Malta Film Studios, ed è stata illuminata in un modo molto particolare: abbiamo dato una diffusa dall’alto con un rig di 4x4m con un telo di full grid e sopra due 4kW HMI, mentre in controluce c’era un 18,000 W dato attraverso una mezza grid 2x2m perché bisognava dare una sensazione di luce lunare diffusa.Con Sidney avevamo pensato proprio di dare la sensazione di una luce che permeasse tutto, senza essere drammatica. Il mare poi è stato rimappato e ricostruito ovviamente in CGI, ma la base dell’illuminazione era stata data da me proprio per andare in contrasto con la tempesta in cui la luce è molto più contrastata per sortire poi quell’effetto comico.La piattaforma era circondata da macchinari della squadra degli effetti speciali, perché c’erano gli shooter per fare i grossi spruzzi d’acqua che si vedono nella scena; c’era uno scivolo con 200 litri d’acqua che venivano liberati per fare l’effetto dell’onda che si infrangeva contro Elio Germano, e due gru con cestelli rotanti per la pioggia.

La barca era stata fatta appositamente riempita d’acqua già per metà, proprio per dare la sensazione che stesse a pelo d’acqua, sul punto di affondare.  I fulmini li facevo io con un lightning strike che è un proiettore fatto apposta da 70kW che era remotato vicino al mio monitor di controllo: con un pulsante decidevo il momento esatto in cui fare entrare i fulmini e cercava di seguire le battute di Elio in modo da rendere la scena più drammatica ed espressiva.

Come è stata girata invece l’ultima scena ambientata sull’Isola delle Rose, quella in cui le cannoniere della Marina italiana arrivano bombardando la superficie d’acqua intorno all’isola?

Gli esterni di quella scena sono stati girati in mare, l’interno della plancia è stato girato in porto, mettendo tutto intorno alla nave ormeggiata dei green screen per non perdere la continuità.

Con quali toni di luce hai invece deciso, d’accordo con Sibilla, di illuminare le scene ambientate a Palazzo Chigi?

Siccome siamo nelle stanze del potere, l’idea iniziale mia, che mi sembra sia stata mantenuta, era quella di raccontare un mondo che pur prendendo decisioni su tutto non aveva nessun vero legame con l’esterno. Sono tutte sale molto chiuse e fumose dove la luce artificiale quasi predomina sulla luce dalle finestre: si percepisce che è giorno, ma la luce quasi non arriva sugli attori. Se dovessimo generalizzare, fondamentalmente Bologna anche negli interni delle case il sodio è il colore predominante, Strasburgo è il freddo, mentre gli interni di Roma sono caratterizzati più dal giallo e dal verde.

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Quale collaborazione hai avuto con il reparto degli effetti speciali? Oltre alle scene sulla piattaforma, quali scene hanno richiesto un maggiore intervento da parte loro?

Quello con Stefano Leoni, che era responsabile degli effetti speciali insieme ad Isabella Rocca di Edi Effetti Digitali Italiani, è stato innanzitutto un grande incontro umano. Siamo stati insieme tutti i giorni dalla preparazione in poi: insieme abbiamo deciso dove posizionare la piattaforma, insieme abbiamo capito dove era necessario inserire i blue screen, insieme abbiamo fatto i camera test, insieme abbiamo trascorso i giorni del set, e anche in post-produzione ci siamo aiutati molto a vicenda affinché gli effetti coincidessero al meglio con le mie scelte fotografiche e viceversa, che non è sempre immediato.

È un lavoro che va fatto in sinergia. Ogni scena sulla piattaforma aveva degli effetti speciali, ma la scena del Moto GP di Imola ha richiesto interventi in CGI davvero notevoli: abbiamo girato al Sagittario di Latina ma c’era solo la pista, il resto ricostruito, anche le persone sugli spalti sono state aggiunte da loro in post-produzione. Loro hanno iniziato a lavorare agli effetti speciali durante il lockdown, una stasi che ci ha permesso di impostare insieme la base dei VFX e far capire al team degli effetti speciali quali erano i gusti di Sidney e i gusti miei. Appena finito il lockdown ho fatto una pre-settimana di color correction, poi sono partito per Aosta per girare Rocco Schiavone; quando sono tornato abbiamo fatto il grosso della color da fine agosto-inizio settembre e si è protratta fino a ottobre, parallelamente alla preparazione di Lunapark, una nuova serie che sto girando per Netflix, ambientata negli anni sessanta. Gli effetti digitali comunque sono stati tantissimi, quasi due milioni.

In fase di color correction quali sono stati i vostri principali interventi sul colore e sull’immagine?

Per la color correction ho lavorato con Christian Gazzi dello stabilimento InHouse. La color è durata tantissimo, abbiamo iniziato con una prima sessione di quattro settimane ma proprio per seguire effetti speciali è durata alla fine due mesi. La fase di color correction mi piace molto, perché ti permette di affinare quello che hai fatto. Con Christian avevamo pensato a una LUT che portasse i colori in una direzione ben precisa: volevamo tirare fuori le dominanti delle fotografie dell’epoca, ispirandoci molto alla pellicola Ektachrome come effetto visivo, vale a dire con colori primari molto accesi e gli altri un pochino sottotono. Christian è stato tanto più prezioso dal momento che L’incredibile storia dell’Isola delle Rose era una co-produzione con Netflix, che da poco aveva alzato gli standard della qualità del video portandoli all’HDR (High Dynamic Range), un modello ancora superiore rispetto all’HD o all’Ultra HD. A me l’HDR personalmente non piace, perché dà una iperdefinizione in contrasto con il look che nel caso specifico volevo dare all’Isola delle Rose: io sul set avevo usato filtri diffusori per espandere l’alone di alcune luci, l’HDR se li rimangiava e riportava perfettamente l’immagine; Christian allora ha sviluppato moduli di color molto particolari per restituire quegli effetti.

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose sarebbe dovuto arrivare anche in sala, ma l’emergenza del Covid ha costretto a un’uscita solamente su Netflix. Come hai vissuto questa decisione? Nella tua ottica, quando l’emergenza del Coronavirus sarà conclusa, quale potrebbe essere il rapporto ottimale fra distribuzione classica nelle sale cinematografica e distribuzione sulle piattaforme?

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose era co-prodotto da Netflix ma era prevista l’uscita nelle sale; adesso ho un grande rammarico, perché io sono stato uno dei pochi, assieme a Sidney e altre persone, che l’abbiamo visto proiettato in sala nel formato Digital Cinema Package, e il DCP è il sistema visivo che meglio caratterizza il film e la sua fotografia, secondo me. Un film come questo, girato tutto con ottiche larghe, in un formato largo come l’anamorfico, con tremila dettagli, più lo si vede su uno schermo grande e più lo si gode, perché apprezzi la qualità della macchina, degli obbiettivi, della luce, degli effetti digitali che funzionano molto meglio su un grande schermo. La chiusura dei cinema in questo periodo è una grande sfortuna. Netflix è un valore aggiunto in termini produttivi, ci ha permesso fare film con tuti i crismi, sarebbe ipocrita dire, almeno da parte mia, che non siamo felici di averlo fatto con Netflix: in questo periodo difficile già avere un film che comunque esce il giorno previsto è una bella soddisfazione. Secondo me nel momento in cui il tuo produttore o co-produttore è un broadcaster come Netflix, la speranza è che tu possa andare sia in sala sia sulla piattaforma: chi ha voglia di vederlo al cinema andrà a vederlo a cinema, chi ha voglia di vederlo a casa se lo vedrà a casa, e pazienza.

Certo io mi sono innamorato di questo lavoro andando a sala, non guardando tv, e anche solo per quanto riguarda l’attenzione del pubblico, per me il cinema è la sala: la sala ti permette quasi di fare uno studio antropologico, perché le persone ci vanno e guardano per due un film senza fare nient’altro, mentre a casa ci sono troppe distrazioni. La sala è un punto ottimale di fruizione, non solo dal punto di vista fotografico – pensiamo solamente all’audio: in gran parte dei film italiano lavoro raffinato di audio, e questo film oltre a un ottimo mix audio c’è anche una colonna sonora meravigliosa. La sala è la definizione massima del nostro lavoro: detto ciò, la presenza dei broadcaster è altrettanto interessante perché a volte ti permette di esplorare nuove soluzioni, anche cinematografiche. Poi alcuni si adeguano, riducono le cose in vista uscita piattaforma, ma Sidney è stato esemplare: ha accettato di buon grado la presenza produttiva di Netflix ma ha mantenuto in tutto e per tutto quello che era il suo film, senza modificarlo, pensandolo per la sala, e credo abbia fatto bene.

 

L’autore ringrazia Lorenzo Castagnoli (Digital Cinema Crew) per la collaborazione e la consulenza tecnica

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