Pubblicato il 6 Luglio 2021.
di Stefano Scanu
Fellini diceva che il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio, in molti casi direi che i cinema sono i luoghi più diretti per entrare nella casa di Dio, o meglio la via più breve se non si vuole passare per la parrocchia che spesso li ospita. Roma è proverbialmente gremita di chiese, pure i cinema non sono da meno, e poi ci sono le sale parrocchiali, dei luoghi che sorgono nel punto esatto in cui la città fa una grinza, si increspa, una cappella e un cinema collassano appena, si inclinano e poco dopo si appoggiano una sull’altro fino a fondersi, dando vita a una crasi ieratico-ludica tutta romana. Niente di posticcio, sembra quasi che le due cose stiano insieme da sempre.
A pensarci bene hanno molto in comune, tanto che per il cinema vale ciò che si dice per la chiesa, ossia che non basta l’edificio a farne un sostantivo, occorre la comunità, i frequentatori che con la loro presenza danno senso a tutto quanto. Se un gruppo di persone si siede in religioso silenzio davanti a uno schermo di fortuna allestito nel bel mezzo di una piazza, quello è già un cinema, se poi allo schermo sostituiamo un sacerdote che celebra messa, abbiamo un tempio; non conta dove lo facciamo ma come lo facciamo.
Quando ne parlo con qualcuno non mi è mai chiaro se ci riferiamo al luogo o all’attività, stiamo parlando di Chiesa o di una chiesa? Di Cinema o di un cinema? Pure sul dizionario i due lemmi distano solo una manciata di pagine uno dall’altro, si rincorrono, si imitano a vicenda. Hanno in comune più di quanto si immagini: una naturale inclinazione allo storytelling (che sia su una panca di legno o su una poltrona di velluto, in entrambi i casi si siede in silenzio ad ascoltare una storia), una rigida ritualità, e ancora, sia nel caso del Cinema che in quello della Chiesa, il Natale rappresenta quella che potremmo chiamare l’alta stagione. Scommetto che la maggior parte delle persone che entra in processione nella chiesa per la messa della vigilia, è la stessa che il giorno di Santo Stefano fa la fila fuori dal cinema. Come dire, dalla sacra ostia al cinepanettone e amen.
Provate a visitare una sala parrocchiale, a vederci un film, non sarà mai banale. Fate un salto al cinema teatro Don Bosco o per esempio al Caravaggio, dove per entrare bisogna infilarsi sotto la chiesa di Santa Teresa del Bambin Gesù, a pochi metri dalle catacombe di San Panfilo; tempo fa mi è capitato di andarci per vedere Carol di Todd Haynes e mentre Cate Blanchett e Rooney Mara si avvinghiavano in un intreccio saffico che saturava di pelle rosa tutto lo schermo, le campane di Santa Teresa hanno cominciato a suonare fin dentro la sala, ammonendo e coprendo ogni ansimo come a ristabilire un ordine nelle cose. Oppure andate al Tiziano di via Guido Reni, stretto tra il museo MAXXI e la Basilica di Santa Croce che lo contiene e lo definisce. Parlate con la famiglia Greggi che lo gestisce da generazioni o con gli anziani del quartiere e vi racconteranno di quando erano i preti a bucare i biglietti al cinecircolo, tagliandi omaggio che si davano esclusivamente ai bambini che si presentavano a messa. Un tempo per entrare al Tiziano bisognava passare dietro l’altare, è stato così per anni, almeno fino a quando il cinema non è diventato il nuovo tempio e l’arena là fuori, il suo sagrato.
Bisogna riconoscerglielo, la Chiesa ha avuto una certa lungimiranza nell’intuire il potenziale aggregante del cinema. Nel 1957 Papa Pio XII emanò un’enciclica dal titolo Miranda Prorsus che magnificava sì l’uomo e le sue “meravigliose invenzione tecniche”, senza però trascurare che pur essendo frutto del lavoro umano, erano prima di tutto “doni di Dio”.
Quindi le parrocchie non c’hanno pensato due volte a risistemare i propri oratori: il biliardino in un angolo, i libri per ragazzi nell’altro e al centro un po’ di spazio per il grande proiettore Prevost: Marcellino pane e vino, Bernadette, Diario di un curato di campagna, segue dibattito e subito dopo partitella.
Si poteva proiettare quasi tutto ma con le dovute eccezioni che l’ACEC (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) nella ferma intenzione di operare in piena osservanza degli indirizzi pastorali, riteneva inderogabili, quindi niente demoni, esorcisti, tentatori, poltergeist e tutto ciò che di divertente il genere horror può e poteva offrire, insomma solo quello che passa il convento.
Alcune sale parrocchiali però sembrano essersi emancipate dal loro alloggiamento, in certi cinema l’odore d’incenso quasi non si sente più, penso all’Azzurro Scipioni, al Delle Provincie o al Tibur in cui la chiesa pare lontana chilometri ma viene evocata sullo schermo a colpi di Bergman e Scorsese. Viceversa in altri l’equilibrio tra i due si è decisamente sbilanciato a favore del più antico e dunque il tempio ha fagocitato il cinematografo: mi ricordo su tutti il club Labirinto in via Pompeo Magno, a Prati, la cui chiusura fu un caso esemplare del ripiegamento di alcuni cinema romani, vittime di tempi e flussi nuovi. Le sale erano delle vere e proprie cripte scavate nelle viscere della chiesa di San Gioacchino, da là sotto la sera si riemergeva in trance liturgica con gli occhi pieni di Peckinpah e Truffaut e poi si andava a sedere sulle panchine di piazza dei Quiriti ad aspettare che quella sensazione sedimentasse. Nel 2007 la chiesa si riprese i locali e con essi tutto quello che vi si era depositato.
A conti fatti, un culto è un culto, ognuno crede in quello che vuole. Per un certo periodo Chiesa e Cinema l’hanno pensata allo stesso modo riconoscendosi l’una nell’altro, in qualche caso è ancora così. Allora bisognerebbe visitarli uno a uno questi luoghi, come una sorta di pellegrinaggio: il San Timoteo di Casal Palocco, il cineteatro Orione sull’Appia, il Forum nella Basilica del Sacro Cuore Immacolato di Maria ai Parioli e tanti altri che anche per un solo giorno hanno fuso le due cose, spazi popolati di devoti, sopra e sotto, in navata come in platea, luoghi dove ognuno confida in qualcosa e se sconfina sotto l’altare o sotto lo schermo, comunque non profana.
immagine © Giorgia Vaccari