Pubblicato il 31 Maggio 2021.
di Stefano Scanu
Fuori dal cinema avanza una breve fila ordinata e distanziata, non come quei capannelli che si formavano prima che il Covid ci rendesse consapevoli di quanti centimetri effettivamente è composto un metro. Comunque, trattoria a parte, la sala occupa quasi tutta la piazzetta su cui sorge da oltre un secolo; anche la targa sul muro su cui è scritto CINEMA NUOVO OLIMPIA richiama quelle della toponomastica capitolina, come se volesse appropriarsi di questo spazio urbano, ribattezzarlo col suo nome. Accanto, sulla locandina, c’è la silhouette di Frances McDormand che tiene una lampada in mano mentre attraversa il deserto.
Sono anni che il Nuovo Olimpia proietta solo film in lingua originale ospitando una folta schiera di cinefili che vede nel doppiaggio un vizio tutto italiano, e insieme a loro i tanti expat di adozione romana che cercano tra quelle quattro mura suoni lontani ma familiari. Entrarci è come espatriare, fare la fila in biglietteria un passaggio di dogana. Nulla da dichiarare, just one ticket, please.
Tra le persone in attesa si riconoscono accenti inglesi, scozzesi, forse australiani e con meno di dieci euro si fa il check-in per una destinazione sconosciuta: Francia, Turchia, Canada, dipende dal regista. È un esodo controllato, questo luogo è un centro di prima accoglienza e svago transitorio in cui gli italiani passano qualche ora per sentirsi un gruppo allogeno, una minoranza etnica, proprio come questa stessa sala, rara superstite dell’estinzione che ha coinvolto una porzione di centro storico in cui abbondavano i cinema; chiuso il Quirinetta, un salotto a due passi dalla Galleria Sciarra, pure quello per un frangente straordinario rifugio per amanti della v.o. Chiuso il Metropolitan alla fine del 2010, l’Arlecchino di via Flaminia, oggi un hotel, e poi il Capranica e il Capranichetta, tra le più belle sale di Roma, l’Ariston nella Galleria Sordi, tempio della rivista e angolo della capitale in cui nel tempo si è depositata tanta Polvere di stelle, la Sala Trevi, l’Etoile che ha mantenuto buona parte della sua architettura, pure se la scenografica scala per la galleria oggi conduce ai piani alti di Louis Vuitton, e altri ancora.
Per entrare nella sala Olimpia bisogna attraversare uno dei due coloratissimi portali in ceramica che Giosetta Fioroni realizzò negli anni ’90 per celebrare la rinascita del cinema. Si sarà pensato che per riaprire un’attività occorrevano delle nuove porte da schiudere. Dietro la tenda della sala A si nascondono delle scale e dei ponti di ferro che sembrano non condurre da nessuna parte, poi quando ci si abitua alla penombra appare chiaro che quell’intrico di metallo è forse un espediente per includere degli affreschi antichi rinvenuti in una delle tante ristrutturazioni. Come un museo archeologico dentro cui a metà Cinquecento ritrovarono pure il basamento dell’Ara Pacis, un enorme scatola di pietra bianca che oggi se ne sta lì a galleggiare sopra il traffico del Lungotevere, dentro una scatola di vetro ancora più grande.
Quando spengono le luci in sala, cessa pure il mormorio. Gli spettatori raddrizzano la mascherina, allungano le gambe; i posti vuoti tra uno e l’altro hanno eliminato anche le dispute per il dominio dei braccioli. In fondo c’è una famiglia di americani così biondi e pallidi che quasi brillano. Partono i trailer, le sigle dei produttori, dei distributori, pure questo è spettacolo, dopo tutto il tempo passato in penitenza il jingle del dolby sembra più emozionante che mai. Un uomo indica i resti del boccascena e il vecchio lucernario sopra la sua testa, bisbiglia alla ragazza accanto che risale ai tempi in cui il Nuovo Olimpia era ancora un teatro, prima che fosse una sala da ballo, un teatrino di marionette, una pista di pattinaggio di fine Ottocento, un caffè-concerto della Belle Époque, un cinema d’essai per sessantottini e, con marcatissimo accento romano, pure er magazzino della Camera dei Deputati. Scorrono i titoli di testa, attacca il piano di Ludovico Einaudi, qualcuno inforca gli occhiali, qualcuno affonda nella poltrona. Una coppia di anziani in prima fila inizia un balletto in cui lei traduce simultaneamente nell’orecchio di lui ogni dialogo e immagine del film, a volte commenta mentre il resto del pubblico non fiata, altre volte l’esatto opposto, deve trattarsi di una specie di idiosincrasia tra la sua traduzione e quella ufficiale che li fa smarrire dal gruppo, una Lost in traslation tutta loro. In una scena del film la protagonista incontra una sua ex studentessa al supermercato che le chiede se è vero che è diventata una senzatetto, quella risponde che no, non è una senzatetto ma solo una senzacasa, non è la stessa cosa, giusto? Tutti annuiscono come se la domanda fosse rivolta a loro, pure la coppia fa sì con la testa e risponde ad alta voce in una ritrovata sincronicità di senso con gli altri spettatori, intanto gli americani li zittiscono ma senza troppo successo poi improvvisamente smettono di parlare da soli e contemplano il primo piano emaciato della McDormand mentre cammina lungo la scogliera, accanto all’oceano in burrasca. Seduti lì i due anziani formano una sagoma in controluce grande quanto il viso della protagonista, i marosi invadono lo schermo, la nebbia bagna ogni cosa, non si capisce più se quelle che scivolano sulle guance della McDormand sono lacrime o solo acqua di mare, vira tutto in grigio, la protagonista ormai si vede appena e pure la coppia sembra svanita nella tormenta. Dissolvenza, arrivano i titoli di coda, luci e fine dello spettacolo.
Fuori dal cinema, nella stretta via in Lucina, sembrano tutti un po’ storditi. Rimangono a fissarsi tra loro cercando le parole giuste per comunicare e mantenendo la distanza. E chi era più abituato a passare due ore così? Poi rompono le file, gruppi di nomadi, pure loro, che si incamminano verso la propria destinazione: chi prende via del Corso, chi va a piazza Venezia, chi in direzione Pantheon, commentando il film, ognuno nella sua lingua, ognuno col suo accento, verso casa o quello che è.