Pubblicato il 10 Maggio 2021.
di Stefano Scanu
Quando si arriva a Trevignano percorrendo la Cassia bis il lago appare tutto in una volta: due curve, un viale alberato e all’improvviso la campagna diventa liquida. Su via Garibaldi ci sono un forno, un ristorante, un bar, un cinema e una pompa di carburante. Lì ci trovi Fabio Palma, benzinaio e cinematografaro, terzo in linea di discendenza di una stirpe di pragmatici sognatori che non è mai riuscita a tenere le mani in tasca. Il primo fu il nonno carpentiere, che nonostante fosse il solo in paese in grado di fare la punta alle barche, un giorno del 1939, in preda alla smania, fece spazio in falegnameria, ci sistemò un proiettore marca Balilla e iniziò a fare il cinema proiettando Frutto Acerbo di Ludovico Bragaglia. Poi venne il padre di Fabio, Fernando, che facendo la spola con la sua barchetta trasbordò tonnellate di pietre dal promontorio Montecchio fino al laboratorio gettando le fondamenta per una sala più grande. È il 1945, primo film proiettato Il re si diverte di Mario Bonnard, circa trecento spettatori per un incasso totale di 840 lire.
Dopo anni di seconde visioni, film a luci rosse e aperture a singhiozzo, ecco il terzo rampollo. Alla fine degli anni ’80 Fabio eredita tutto il pacchetto, pompa di benzina e cinema; così la qualità dei film cresce, gli spettatori aumentano e si fidelizzano mentre registi e attori scoprono questa saletta sulla riva del lago di Bracciano che pare una chiatta attraccata al molo per paura che le correnti se la portino al largo.
Oggi a gestire il Palma, insieme a papà Fabio e tutta la famiglia, c’è il figlio Francesco, un trentenne con ottant’anni di storia che mi aspetta seduto dietro la cassa, tra pareti e panche di legno, più che nel foyer sembra di essere nella cambusa di un vaporetto.
Quando hai deciso che questo sarebbe stato il tuo lavoro?
Difficile dirlo, in questo cinema praticamente ci sono nato, ha sempre fatto parte della mia vita. Poi dopo essermi laureato, mi sono trasferito in Perù per lavorare come cooperante internazionale, ci sono rimasto per qualche anno finché il richiamo del Palma non è diventato sempre più forte e alla fine eccomi qui.
Dopo mesi di silenzio finalmente le sale hanno ripreso a funzionare. Considerando i pochi film in programmazione e un pubblico più diffidente come è stata la riapertura?
Emozionante. Il nostro è un pubblico che ci chiama per nome, che apprezza le scelte che facciamo e il nostro lavoro, gli siamo mancati e loro a noi. Rientrare in sala per molti è stato un ritorno alla normalità, un risveglio. Il Palma è un luogo centrale di questa comunità, che identifica noi che ci lavoriamo e le persone che vengono a trovarci; se il lockdown ha alterato la quotidianità e le abitudini sottraendoci un po’ di vita, riaprire il cinema è stato come riappropriarsene.
Negli anni il Palma è passato di mano in mano, tre generazioni di esercenti che si sono avvicendate lasciando ognuna la propria impronta, adesso è il tuo turno. In che modo ti senti simile a chi ti ha preceduto e in cosa invece ti differenzi?
La passione è sicuramente la stessa così come l’attenzione alla qualità dei film e alla collettività. Forse è cambiato il modo attraverso cui comunicare tutto ciò. Abbiamo iniziato a usare i social in maniera più attiva e aggregante, integrandoli alla nostra storica presenza sul territorio ma soprattutto è cambiata l’attenzione verso il pubblico più giovane e gli studenti. Non è vero, come spesso si dice, che le nuove generazioni stiano decretando la fine dei cinema, credo invece che abbiano un enorme potenziale non sfruttato. I ragazzi consumano moltissimi contenuti audiovisivi, forse più di chi li ha preceduti; certo lo fanno in modo un po’ distratto, spesso attraverso lo schermo di uno smartphone ma il desiderio è lo stesso. Così abbiamo provato a riportare gli studenti nella sala, a farli sorprendere davanti a immagini monumentali a cui non sono più abituati, però per farlo bisogna svecchiare un po’ la proposta. Si è iniziato a proiettare film diversi dai soliti a cui si ricorre per sensibilizzare sui temi dell’olocausto, della resistenza o dell’immigrazione, pellicole più vicine al loro linguaggio, insomma non più solo Schindler’s List ma anche Jojo Rabbit.
Una sorta di nuova educazione cinematografica?
Prima che i ragazzi entrino in sala mi piace sollecitarli sull’eccezionalità dell’esperienza che stanno per fare, predisporli ai suoni che ascolteranno, alle immagini, al buio in cui condivideranno l’intimità e l’emozione. Se anche uno di loro tornerà a casa apprezzando questa breve deviazione dalla normalità e riconoscendo la differenza che passa tra vedere un film in tv seduto sul divano e farlo al cinema, allora avrò fatto un buon lavoro. Qualche anno fa inaugurammo un progetto con una classe pilota il cui scopo era realizzare un cortometraggio totalmente autoprodotto. Con l’aiuto di alcuni amici che lavorano nell’ambito cinematografico abbiamo fatto in modo che gli studenti scrivessero un film, lo interpretassero, ne curassero la regia e il montaggio usando quegli stessi telefonini su cui guardano gran parte dei video. Una volta finito lo abbiamo proiettato in sala; ti assicuro che il passaggio dai 6 pollici dello smartphone al grande schermo non se lo scorderanno tanto presto.
A stupirsi in questo luogo però non sono solo i ragazzi. Anche gli adulti che vengono qui hanno il loro momento di smarrimento. In questo cinema che sembra un grande peschereccio si ha l’impressione di galleggiare, le porte della sala affacciano direttamente sul lago e la cabina di proiezione assomiglia al ponte di comando in cui per tante stagioni il tecnico e capitano Angelo Parissi ha scaldato le macchine e sbrogliato matasse di celluloide come fossero reti.
Angelo è la storia del cinema Palma, ha cominciato con il mio bisnonno ed è rimasto in attività per oltre settant’anni ma anche in questo caso il testimone è passato al suo allievo, Adriano Pitarresi, che porta avanti il mestiere nonostante il proiettore digitale sia decisamente meno romantico del vecchio Fedi a pellicola. Parlando invece dell’effetto che questo luogo ha sugli spettatori, ricordo ancora la meraviglia dei fratelli D’Innocenzo quando dopo aver trascorso oltre un’ora nella penombra della sala a presentare La terra dell’abbastanza, aprirono le porte sul retro per uscire e si trovarono questa sterminata distesa d’acqua accecante.
Per i cinema l’estate è sempre stato il momento del riposo ma stavolta è diverso, questo è un anno zero. Che cosa avete immaginato per il futuro?
Molte cose, la situazione ci ha fornito tanto tempo libero per programmare e pensare ad azioni nuove. E poi abbiamo l’arena vista lago, il nostro vero laboratorio di sperimentazione. Si è iniziato a ripensarlo come un luogo d’incontro in cui convergono diverse situazioni artistiche e creative che si contaminano fra loro, tutte però connesse al film che rimane l’evento centrale. Quindi mostre, concerti, esibizioni e altre cose che non so nemmeno come chiamare, pensa che ho portato uno sputafuoco una volta… Vogliamo che il pubblico non arrivi a ridosso della proiezione, ma prima, per godersi il tramonto e un’esperienza irripetibile, integrale; insomma la sala intesa non più come semplice contenitore di un film, i tempi sono cambiati e questo è il nostro tentativo di adeguarci.
Il Palma è un luogo speciale per molte persone, qual’è il tuo cinema preferito?
Il Farnese, prima di tutto per la posizione. La piazza, la statua di Giordano Bruno e il pubblico, una vera comunità, molto simile alla nostra. Di quel cinema mi piace anche la programmazione, sempre attenta e mai scontata. E poi l’arena Augusto di Sperlonga, un posto magico a cui sono affezionato e dove ho passato le mie estati cinematografiche. Ricordo che tra una scena e l’altra mi giravo per spiare il mare proprio come faccio oggi qui, nel mio cinema, guardando il lago.