Pubblicato il 11 Gennaio 2021.
di Fabrizio Giovanardi
C’è qualcosa di sublime nel cinema di Takeshi Kitano. Un sublime che unisce le connotazioni critiche e post-moderne di Lyotard, che vedeva nel sublime il frutto di una sperimentazione fortemente materiale e affatto metafisica, a quelle più tradizionalmente kantiane. Il sensus communis di cui parla Lyotard ben si sposa con l’estetica di Kitano: si tratta di una caratteristica comune a tutti, che ci permette di esperire piacere ancor prima di formulare un giudizio. Un’esperienza spiazzante, a dire di Kant “incommensurabile”, che si manifesta in questo caso sotto forma di pura post-modernità cinematografica. E se questa forma concettuale è presente a più riprese in tutta la filmografia del regista giapponese, è nei film del decennio 1991-2002 che esso riesce ad emergere pienamente.
In questo caso ci soffermeremo in particolare su Il silenzio sul mare (1991), L’estate di Kikujiro (1999) e Dolls (2002). La peculiarità di queste pellicole, che potremmo considerare sotto la comune (e forse impropria) etichetta di “triade poetica”, risiede nella gestione dei tempi narrativi e della struttura del racconto. Queste pellicole, infatti, lavorano sulla rimozione, sulla sottrazione, sulla liberazione dell’esperienza cinematografica da qualsiasi orpello subordinato alla linearità del racconto.
Ne Il silenzio sul mare la semplice trama è quella di un ragazzo sordomuto che, coltivando la propria passione per il surf, conosce una ragazza anch’ella sordomuta e vive le proprie giornate tra le onde del mare e il malvoluto lavoro da netturbino. In Dolls si intrecciano addirittura tre racconti differenti: le relazioni amorose impossibili, la violenza e il tema del viaggio tessono una delle trame più semplici e intriganti che Kitano abbia mai proposto sul grande schermo. Le storie messe in scena da questi film in particolare, così essenziali ma così potenti, rendono il messaggio esplicito: Kitano è un maestro dell’immagine.
L’estate di Kikujiro ha una trama semplicissima: un signore goffo e bizzarro incontra un bambino che cerca la madre e i due si mettono in viaggio per cercarla. Non serve altro. Eppure verrebbe da chiedersi come sia possibile che le costruzioni visive così barocche dei blockbuster hollywoodiani – del calibro di Avengers: Endgame e degli ultimi capitoli di Star Wars – non riescano a raggiungere neanche la metà della potenza visiva dirompente scaturita da un’inquadratura di due soli soggetti nei film di Kitano.
Ci si domanderebbe come sia possibile che una inquadratura apparentemente così scarna, così povera, riesca a trasmettere una tale bellezza. Beat Takeshi ribalta il sublime kantiano, lo decostruisce e lo ricompone a modo suo. La potenza dell’uragano, espressione del sublime dinamico kantiano, si trasforma in uno scirocco che increspa le onde, e l’incommensurabilità matematica della montagna è mutata nella fin troppo misurabile figura di due ragazzi con una tavola da surf. Ma come è possibile? È forse Kitano un mago? Uno stregone con la macchina da presa che manipola le nostre emozioni a proprio piacimento? Zavattini avrebbe risposto che il segreto risiede nel rendere straordinario l’ordinario, ma i film di Kitano non sono opere neorealiste.
Sono, piuttosto, forme altissime di stasi. Paul Schrader, nel suo Il trascendente nel cinema, parlava di stasi quando si riferiva ai film di Ozu Yasujiro, e portava avanti un parallelo con le filmografie di altri giganti quali Robert Bresson e Carl Theodor Dreyer. Potremmo quindi, senza averne troppo timore, affermare che il cinema di Kitano deve molto a questo particolare approccio trascendente. Non sembrerebbe affatto forzato considerare un film come Il silenzio sul mare una reinterpretazione del cinema del maestro Ozu.
Comunque, la stasi di cui parla Schrader – in questo caso a proposito di Bresson – non è altro che una sorta di sintesi tra vuoto e caos. Un processo lungo, che passa prima attraverso le fasi del quotidiano e della scissione. Una sintesi che, nei film di Kitano, diviene trascendente. Cercherò qui, per rendere il tutto più chiaro, di esemplificare il processo esposto da Schrader attraverso un’analisi del film L’estate di Kikujiro (seguono spoiler).
Il quotidiano è, in generale, la celebrazione del banale. Essa è caratterizzata dall’attenzione per le piccole azioni, per i rumori, per i gesti, per le sensazioni. Nel film Kitano sceglie di sviluppare il rapporto tra i due protagonisti non attraverso situazioni particolarmente complicate e difficoltose, bensì nell’ ordinarietà del quotidiano. Le scommesse sui cavalli, una giornata in piscina, la fermata dell’autobus: sono tutti luoghi semplici e comuni nei quali il regista può iniziare a coltivare il trascendente, mostrando la nuda realtà dei personaggi liberata da qualsiasi pesante fardello narrativo. Seppur in modo meno drastico rispetto a Bresson, Kitano opta per una recitazione naturalissima, reale, nient’affatto artificiosa; nulla, infatti, maschera il reale più di una recitazione costruita sui personaggi. I protagonisti del film devono essere interpreti di loro stessi, niente più.
Questa costante ricerca dello “spoglio” emerge anche dalla scelta delle inquadrature, spesso statiche e larghe, volte a mostrare l’azione nella sua interezza. Vedendo una realtà così nuda e cruda, lo spettatore vorrà cercare qualcosa che la superi, che vada oltre di essa e possa mostrarci effettivamente “di più”: non può che sopravvenire il desiderio di cambiamento. È qui che si ha il momento della scissione, della rottura con l’ordinario, dell’impatto con la realtà (finora solo osservata) e del conseguente rimbalzo. Ed è durante questo particolare momento che Kitano ci mette del proprio. La rottura con l’ordinario è ottenuta con particolari soluzioni registiche quasi oniriche, che mostrano elementi al di fuori della realtà che si integrano con essa. L’accennato surrealismo delle immagini è coadiuvato da una costante ricerca della sorpresa, dell’innaturalità, dell’artificiosità dell’azione.
Nella sequenza del gioco – gioco che è soprattutto finzione ed emulazione, elemento metalinguistico e anch’esso trasversale all’intera filmografia di Kitano – il bambino si diverte con gli altri personaggi: uno di loro si veste da pesce, l’altro da piovra. In questa situazione ai confini del plausibile sperimentiamo per la prima volta una sensazione vagamente riconducibile all’alienazione della quale ci parla Schrader a proposito di Bresson. In questo momento ci sentiamo come estraniati, ma come mai prima d’ora desiderosi di visionare il resto della scena. Questo momento della rottura ci pone di fronte a un bivio: possiamo seguire l’autore e accettare il brusco cambiamento di rotta o, invece, rifiutare il “salto di qualità” ed esperire un fastidio dovuto alla incoerenza di quello che stiamo guardando. Se intraprendiamo la prima strada, come spero riusciremo a fare, allora potremo giungere alla fase finale del gioco, quella della stasi.
È ora che il trascendente si fa da potenza atto, ed è in questo momento che il film può portare la nostra percezione dello stesso su un livello superiore. E cosa potrebbe meglio rappresentare la compiutezza di questo passaggio della sequenza finale del film? Un susseguirsi di immagini che si sovrappongono nella mente del bambino protagonista, in una dimensione ultraterrena, onirica, trascendente. Ma non immagini casuali, bensì legate all’esperienza del bambino, al suo ricordo immediato. Legate ancora a quella dimensione del gioco che è così pervasiva nel cinema del regista giapponese.
La stasi è il risultato di un percorso complesso, che si raggiunge in particolare dopo un momento di straniamento simile a quello caratteristico del teatro brechtiano. Se nel caso dell’autore tedesco esso sfociava in una presa di coscienza politica, nel caso di Bresson (e quindi di Kitano) esso porta all’esplosione del trascendente.
Il processo appena descritto è ben riscontrabile anche nelle altre succitate pellicole del regista, ma lasciamo al lettore il piacevole compito di individuarlo e di astrarlo dalle immagini.
Il sublime nel cinema di Kitano corrisponde, quindi, a una decostruzione dei canoni kantiani in funzione di una ricomposizione di carattere trascendente (da non confondere con trascendentale, Kant ne soffrirebbe). Questo ci permette di capire quanto il cinema, anche quello che all’apparenza appare più semplice, sia un’arte di una complessità incredibile. Quello di Kitano, in particolare, ne è un esempio eccellente. Il regista, abile marionettista che tesse le fila dell’azione (Dolls è, da questo punto di vista, ancora più esemplificativo), fa emergere la propria autorialità mostrando, senza parlare. Nei film qui discussi gli scambi di dialogo si contano davvero sulle dita di una mano, e tuttavia Kitano è in grado di impartirci la più significativa delle lezioni: se ben dosata, e se la si è compresa veramente, l’immagine del silenzio è più eloquente di mille parole.