Pubblicato il 22 Ottobre 2021.
di Ludovico Cantisani
Futura. Se c’è un aspetto interessante e spesso anche sinistro dei documentari, quando ritraggono situazioni reali in contesti reali, è rivederli decenni dopo e scoprire quanto quei mondi sono cambiati. Il cinema sa scolpire, imbalsamare il tempo – ma tornare sui luoghi implica il più delle volte un disincanto, una delusione. Con Futura, rispetto a questo elemento egizio i tre registi Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e Francesco Munzi operano un cortocircuito: in giro per l’Italia, partendo pochi mesi prima dello scoppio del Coronavirus per terminare il viaggio durante il lockdown autunnale, fanno una vera e propria “inchiesta sul futuro” interrogando le aspettative e i timori di giovani tra i quindici e i vent’anni sparsi su tutto il territorio nazionale, dalle periferie romane alla Normale di Pisa.
Curioso caso di film collettivo non a episodi, in cui solo la voce fuori campo delle domande può suggerire quale dei tre registi in quel momento sta girando senza escludere che accanto a lui ci siano anche gli altri, Futura è stato prodotto dall’Avventurosa Film e presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes lo scorso luglio, per poi approdare nelle nostre sale come film-evento dal 25 al 27 ottobre. In virtù del curioso asset registico che lo muove, Futura risulta piuttosto diverso sia dalla “finzione empatica” che aveva caratterizzato i primi tre film della Rohrwacher, sia dai codici documentaristici generalmente impiegati da Pietro Marcello prima di Martin Eden, sia dal cinema del reale livido e “in apnea” con cui Francesco Munzi si è fatto conoscere.
Come dichiarano le note di regia, sin dal primo incontro l’intenzione dei tre è stata “quella di realizzare un’opera autenticamente collettiva”, in cui “la collettività fosse messa al servizio di un progetto organico”: una sorta di messa in crisi della tradizione abituale del cinema d’autore, in cui anche gli stilemi tipici del cinema del reale vengono ridotti a un grado zero, nel passaggio da regista a testimone, al fine di creare un’opera in peculiare equilibrio tra film e reportage. È anche il film che testimonia se non uno scambio un ascolto generazionale, per cui tre registi nati tra il 1969 e il 1980 vanno ad addentrarsi e intervistare gruppi di giovani nati dopo il Duemila. Sulla cosiddetta generazione Z si sono dette e proiettate molte banalità, ma i tre registi cercano di accostarsi agli adolescenti di oggi senza pregiudizi e soprattutto senza retorica. Il più delle volte ci riescono.
Girato con particolare coscienza del mezzo filmico nonché con una certa sensibilità nel porre le domande, Futura risulta essere esattamente ciò che le note di regia programmaticamente si impegnavano a realizzare: “un film in cui la pluralità non si esprimesse nella natura episodica ma nella molteplicità della regia, recuperando un’idea di cinema presente nel passato ma di cui oggi esistono pochi esempi”. La mente però va non tanto ad alcuni esperimenti di cinema collettivo nostrano, in cui Zavattini radunava i principali esponenti del Neorealismo e i suoi dintorni, quanto a certe operazioni di godardiana memoria, come il Gruppo Dziga Vertov, attivo fra gli anni sessanta e settanta, a cui si dovettero opere come Vento dell’est. In realtà, se si va al di là dell’inedita configurazione di regia, non si esita a riconoscere come primo e principale antecedente a quest’operazione cinematografica del trio Rohrwacher, Marcello e Munzi l’epocale Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini. Uno dei ragazzi addirittura in un certo momento del film lo cita, dimostrando di aver capito fin troppo bene “il gioco” a cui lo espongono i tre registi. Questo passaggio delle interviste, assieme a una delle inquadrature iniziali in cui si lascia vedere il ciak in campo, si va ad aggiungere ai moduli di metacinema variamente disseminati nel corso del film – Futura è un film che si interroga su sé stesso, a suo modo.
La struttura del montaggio, curato dalla francese Aline Hervé, è infatti al tempo stesso cadenzata e “aperta”. Più volte si consuma un’improvvisa interpolazione di materiali d’archivio vecchi di decenni, ad evidenziare un contrasto o una convergenza tra i giovani italiani di oggi e “di allora”. Del resto, e questo è uno dei maggiori punti di interesse del film, Futura mostra in se stesso le chiare tracce del suo processo produttivo, interrotto dal Coronavirus. Uno sprazzo antropologico sul Carnevale in giro per l’Italia trova posto un attimo prima che la voce della Rohrwacher e materiali di stock footage che mostrano folle in mascherina dentro le stazioni ferroviarie annunci lo scoppio della pandemia.
Futura diventa così un’indagine sul futuro al tempo del Coronavirus, ma, grazie agli innesti di materiali d’archivio, comunica anche con i decenni passati, che alcuni dei giovani accusano di aver vissuto “con maggiore spensieratezza”. Il virus non diventa protagonista del film, neanche per la parte delle riprese realizzata nell’estate 2020 o per l’ultima tranche catturata nel corso del lockdown autunnale, ma da quel Carnevale di febbraio 2020 in poi sembra diventare un’eco sinistra che assorbe tutto il resto del film. “Senza rendercene conto questo film diventava il diario di uno stato d’animo contagiato”.
La paura, o meglio la timidezza di fronte al futuro è l’aspetto più doloroso di Futura, come spaccato generazionale e come radiografia di un momento storico irripetibile. “Cos’è che ti fa più paura?” – “Il non sapere quello che accadrà” è uno dei tanti scambi tra registi e ragazzi su questo tema. Allo stesso modo, di tanto in tanto i tre registi “interrogano” i giovani anche sul passato, e saltuariamente non nascondono un po’ di sconcerto: come nella scena, poco prima della fine del film, in cui emerge come gli adolescenti incontrati a Genova, alcuni dei quali studenti della Diaz, non abbiano affatto le idee chiare sul G8 del 2001; la giustificazione addotta da alcuni di loro, che rivendicano di essere nati dopo quei fatti, non suona del tutto convincente.
“Futura non è un film di osservazione e non è propriamente inscrivibile in quella vasta produzione definita cinema della realtà”, si autorecensivano i tre autori nelle note di regia del film, descritto come “un reportage nella sua forma più nobile” che vuole arrivare a codificare “una sorta di archivio del contemporaneo”. Se già Agostino Ferrente e Giovanni Piperno con Le cose belle avevano raccontato il disincanto di quattro ragazzi napoletani nel passaggio dai sogni adolescenziali del 1999 alla ben più prosaica realtà del 2012, Futura sembra azzerare questo divario incontrando adolescenti a cui i sogni di gloria del diventare “magari calciatore” restano, ma sono più spesso ovattati da un’ansia di futuro che dopo il Covid si fa sgomento. Disseminata tra le tante immagini e situazioni raccolte nel film, particolarmente suggestiva è una scena di tiro alla fune in un paese. A sinistra, i giovani, a destra, gli adulti. È sintomo di una crisi nel rapporto tra le generazioni che certo non si può ignorare. Futura sembra essere immaginato più per gli adulti che stanno dietro alla macchina da presa che per gli adolescenti che ritrae, ma trova il suo valore proprio in quanto testimonianza mai dogmatica.