Pubblicato il 3 Agosto 2021.
a cura di Ludovico Cantisani
Gianluca Jodice (Napoli, 1973) dopo una laurea in filosofia entra nel mondo del cinema, girando alcuni premiati cortometraggi tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila; nel 2013 è il regista di alcuni episodi della serie sky 1992, mentre l’anno successivo esce il suo documentario Cercando la grande bellezza, sulla realizzazione del film premiato all’Oscar di Paolo Sorrentino. Il suo primo lungometraggio, Il cattivo poeta, biopic su Gabriele D’Annunzio interpretato da Sergio Castellitto e prodotto dalla Ascent Film di Matteo Rovere e Andrea Paris, è stato uno dei maggiori successi al botteghino da quando le sale cinematografiche hanno riaperto.
Gianluca Jodice è stato recentemente ospite delle arene del CineVillage Parco Talenti e Notti di Cinema a Piazza Vittorio in occasione della proiezione del suo film. Il cattivo poeta torna in programmazione nell’arena di Piazza Vittorio anche lunedì 23 agosto e nuovamente al CineVillage Parco Talenti il 25 Agosto.
Come hai iniziato il tuo percorso da regista e come pensi abbia influito sul tuo modo di fare cinema la tua formazione in filosofia?
Ho iniziato presto, girando i miei primi cortometraggi a 15-16 anni: quella per il cinema è stata per me una passione molto precoce. Con i miei cortometraggi ho iniziato a vincere festival piccoli e col tempo sempre più importanti, incluso l’ultima edizione del Sacher Festival di Nanni Moretti, nel 2001. Già in quegli anni ho scritto molte sceneggiature per film veri e propri, che però non sono riusciti ad andare in porto; intanto ho girato il documentario sulla realizzazione de La grande bellezza e ho fatto la co-regia della serie 1992 di sky, poi finalmente è arrivato Il cattivo poeta. Non so dire come la mia formazione in filosofia mi abbia influenzato come regista: se ha avuto un’influenza, l’avrà o continuerà ad averla è sicuramente per via lontana e indiretta. Mi viene da pensare a una cosa molto semplice, all’approccio molto razionale che cerco di avere rispetto al film e alla regia: un’attenzione alla strutturazione anche più profonda della partitura di un film. Cerco sempre di calibrare le mie sceneggiature non solo nelle loro dinamiche più “di superficie” come le scene e i dialoghi, ma anche nella costruzione di una temporalità propria del film, ad esempio, che vuole essere ricercata e complessa: sperando di creare un’opera che non si esaurisca come senso e bellezza a una prima e singola visione.
Cosa ti hanno lasciato l’esperienza della co-regia della serie 1992 e la realizzazione del backstage de La Grande Bellezza?
Realizzare il backstage de La Grande Bellezza mi ha lasciato molto perché ho frequentato il set del film quasi ogni giorno. Quello de La Grande Bellezza era un set enorme, capitanato da un grande regista che era un mio amico personale: una situazione come questa, se sai guardare e sai ascoltare, è una scuola decisiva. Girare invece 1992 ad essere sincero non mi ha lasciato molto: io ero il regista di seconda unità, per cui avevo un’autonomia parziale quanto alle scelte creative. 1992 era una delle prime serie italiane, si era agli albori di un nuovo modello di serialità: c’era grande paura e ansia, e non molto budget a disposizione. Giravamo molte scene al giorno cercando di mantenere una qualità molto alta: anche questa è una palestra inconscia, a ben vedere.
Come è nata l’idea di realizzare un film biografico su Gabriele D’Annunzio e come ti sei documentato sulla sua figura? Perché hai deciso di concentrarti sugli ultimi anni della sua vita invece che su altri momenti forse anche più celebri come l’occupazione di Fiume o la sua storia d’amore con la Duse?
Siccome il mio esordio tardava a venire, è stato il produttore Matteo Rovere che mi ha proposto se avevo voglia di fare un film biografico. Da reminiscenze scolastiche e universitarie è riaffiorata alla mia memoria l’immagine di un anziano Gabriele D’Annunzio rinchiuso nel suo castello fra cocaina e donne. L’idea di un poeta nazionale morente e reclusosi nel suo castello portava con sé un immaginario quasi da film di vampiri, e mi sembrava molto cinematografica: è stata questa la scintilla, non ero un “dannunziano” prima di iniziare a lavorare alla sceneggiatura, il mio approccio in partenza è stato essenzialmente filmico. Ho scelto di raccontare l’ultimo anno di vita di D’Annunzio un po’ perché nel mettere in scena il declino e il crepuscolo del poeta nazionale volevo parallelamente mostrare l’Italia che si inabissa nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Tutto Il cattivo poeta è costruito secondo un binario parallelo, per cui attraverso l’ultimo anno di vita di un grande personaggio si racconta, per estensione, la vita di un paese intero.
Come era nato l’incontro con Matteo Rovere e l’Ascent Film? Dopo la proposta iniziale di Rovere e la tua idea di raccontare la figura di D’Annunzio, come è stato possibile mettere in piedi produttivamente Il cattivo poeta?
Io e Matteo Rovere ci conoscevamo da tempo perché già anni prima dovevamo fare un altro film in coproduzione con la Indigo, da cui io in un certo senso provengo: quel film sfumò, il mio rapporto con l’Indigo stentava a decollare e Matteo è stato molto bravo e veloce a prospettarmi una fattibilità rispetto a questa mia idea di un film su D’Annunzio che gli era piaciuta molto. Quello de Il cattivo poeta è stato un percorso molto in discesa: dopo la fase di documentazione, per la quale Giordano Bruno Guerri, il presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani, ci ha messo a disposizione molti materiali, la scrittura di una sceneggiatura ha avuto il suo tempo fisiologico ma una volta ultimata ha subito conquistato tutti, dagli attori ai finanziatori.
Come hai scelto di strutturare la sceneggiatura e le sue sottotrame? Come mai, nonostante l’iniziale sostegno fornito a Mussolini e alla prima fase del fascismo italiano, hai scelto di evidenziare solo il momento del distacco tra il Duce e il Vate, quando negli ultimi anni della sua vita il regime incaricò il federale Comini di sorvegliarlo?
Io volevo rendere più complesso e veritiero storiograficamente il rapporto tra D’Annunzio e il fascismo, rispetto alla vulgata comune, voluta a posteriori da Mussolini, che ci consegnava il mito del “poeta fascista”. Nella realtà storica, il rapporto fra i due fu molto diverso e molto più complesso. L’idea di un D’Annunzio fascista è una forzatura storica così come lo sarebbe dire che era antifascista: certo è significativo che D’Annunzio non prese mai la tessera del PNF, e pur essendo all’inizio un grande estimatore di Mussolini è testimoniato che ebbe un lento e progressivo ma deciso allontanamento rispetto a lui. Il punto di massima avversione di D’Annunzio al regime mussoliniano ci fu verso la fine della sua vita, quando Mussolini si alleò con la Germania nazista di Hitler: quell’evento rappresentava, di nuovo, sia la caduta dell’Italia in un abbraccio mortale con Hitler che il momento di massima lontananza e tensione tra il Duce e il Vate.
Come sei arrivato alla scelta del titolo Il cattivo poeta?
“Il cattivo poeta” non è un mio giudizio estetico, come molti dannunziani all’inizio temevano, ma una definizione che D’Annunzio si diede in una lettera a un’amica scritta in quegli ultimi anni, un po’ per autoironia un po’ perché lui era davvero in un periodo di depressione. Dato che non scriveva da anni e il suo solo interesse era quello di curare il suo castello al Vittoriale, scriveva a questa donna “ormai non sono più un poeta, sono solo arredatore di interni, sono un cattivo poeta”. Un altro titolo che mi piaceva molto si ispirava a un’ala del cortile del Vittoriale che D’Annunzio inaugurò proprio sul finire della sua vita, quando volle ritirarsi definitivamente a vita privata perché ormai odiava l’Italia e il mondo intero: e chiamò quell’ala Schifamondo. Per un po’ Schifamondo fu una delle ipotesi di titolo, poi però è prevalso Il cattivo poeta.
In che fase è entrato nel progetto Sergio Castellitto, e come hai lavorato sul personaggio con lui?
Sergio Castellitto è entrato subito nel progetto: non appena ho finito la sceneggiatura, io e Matteo siamo andati a casa sua e abbiamo subito parlato di date e di incastri. Dalla volta successiva che ci siamo visti Sergio ed io abbiamo iniziato a parlare artisticamente del progetto: Castellitto ha voluto aderire da subito, non c’è stata alcuna lentezza o dubbio. Con Sergio ho lavorato, per fortuna, come si lavora con tutti i grandissimi attori: è stato tutto facile. Lui stesso è regista e sceneggiatore, quindi è stato un po’ anche un co-autore del suo personaggio: abbiamo parlato e ci siamo confrontati, ma Sergio ha subito trovato quella cifra triste, depressa, crepuscolare che volevo dare al film e al personaggio di D’Annunzio. Sul set ci sono state solo piccole calibrazioni in itinere sull’interpretazione, a seconda della scena, ma è scivolato tutto in maniera naturale, senza nessuna divergenza o “scossone”, come può accadere nei film.
Come hai interagito invece con Francesco Patanè, che interpreta il federale Comini?
Anche Francesco Patanè era un talento mostruoso, sicuramente con lui ho “strillato” un po’ di più ma lui sapeva prontamente ascoltare e mettere in pratica quello che gli dicevo. Avendo molte scene con Sergio si è creato tra i due un “gioco a rimpiattino” molto proficuo: sul set de Il cattivo poeta c’era il giovane attore che si confrontava con il grande attore oltre che il giovane federale al cospetto del vecchio poeta; gli attori e i personaggi viaggiavano in parallelo e si creava uno scambio molto bello da vedere dall’esterno.
Come hai conosciuto invece Daniele Ciprì e come hai impostato con lui la fotografia del film?
Daniele me l’ha presentato Matteo, che aveva lavorato con lui su Il primo re: non lo conoscevo personalmente ma da subito faceva parte di quella rosa di 2-3 nomi che avevo proposto. Ci siamo incontrati e ci siamo subito piaciuti, siamo entrambi due vecchi cinefili “orrendi” e perduti: persone come lui, che hanno visto tutti i film del mondo, sono sempre più rare ma ancora ci sono, e sono sgorgati naturalmente molti riferimenti comuni. Durante i primi sopralluoghi al Vittoriale subito ci siamo detti “questo è un film di vampiri”: per penombre, per chiaroscuri, per i velluti delle tonde, abbiamo subito pensato a Nosferatu, e con Daniele ci siamo mossi per creare un colore che doveva essere tangenziale a un bianco e nero, a quel rigore in termine di immagini, di inquadrature e luminosità che avevano i noir classici e appunto i film di vampiri.
Con quale macchina da presa avete girato Il cattivo poeta e con quale set di lenti?
Abbiamo girato con una RED Gemini 5K, che era uno dei modelli più innovativi all’epoca, molto indicata e specifica per i chiaroscuri, le ombre e le penombre. Le lenti erano delle lenti vintage molto vecchie, le Kowa, che assorbivano bene i riflessi e le sporcizie. Le Kowa sono lenti in qualche modo “imperfette”, ma danno alle immagini quella patina di antico che cercavamo.
Come hai interagito invece con lo scenografo Tonino Zera? Come è stato possibile ottenere il permesso di girare il film nel vero Vittoriale degli Italiani, la sfarzosa residenza che D’Annunzio fece costruire per sé negli ultimi due decenni della sua vita?
Giordano Bruno Guerri, il presidente del Vittoriale, ha voluto leggere la sceneggiatura del film ed, essendogli piaciuta, ci ha accordato il permesso di girare lì. Essendo il Vittoriale un’opera d’arte a sé con un’estetica precisa voluta da D’Annunzio, con Tonino abbiamo capito che dovevamo solo “coccolare” e assecondare gli ambienti che già c’erano. Per le scene ambientate al Vittoriale ci siamo limitati a togliere qualche oggetto da lì, perché il castello nella realtà è ancora più pieno zeppo di oggetti di quanto si veda nel film. Per quanto riguardava invece la parte romana del film, la Casa del Fascio, Palazzo Venezia e in generale gli ambienti fascisti Tonino ed io abbiamo avuto maggiori margini di ideazione. Per questi set la parola chiave per me doveva essere “sacrestia”, e quando l’ho detta Tonino si è illuminato. Ci servivano grandi spazi squadrati e vuoti che evocavano quel rigore e quella voglia anche ipocrita di pulizia che la scenografia fascista imponeva. Nell’alternanza di scene che caratterizza il film abbiamo giocato molto su questi continui contrasti tra gli ambienti squadrati del mondo fascista e le sinuosità del Vittoriale. In effetti abbiamo evidenziato questo contrasto anche usando lenti diverse per i diversi ambienti: con le Kowa, che sono delle lenti anamorfiche, abbiamo ripreso il Vittoriale, sugli ambienti fascisti invece abbiamo utilizzato delle lenti squadrate e sferiche.
Come si sono svolte le riprese del film, e quali sono state le scene più difficili da girare?
Le riprese sono andate molto bene. Malgrado il fatto che il Vittoriale sia un museo nazionale, Guerri ha avuto il coraggio di chiuderlo per noi per un mese intero. Eravamo solo noi in tutta la struttura, era un’emozione molto bella: come Sergio diceva sempre, “non siamo su un set, siamo a casa di D’Annunzio”. Venendo nello specifico, ogni scena è difficile, è una banalità ma è così; forse la più complessa è stata la scena alla stazione, ma per motivi pratici: non potendo bloccare la circolazione ferroviaria avevamo un solo pomeriggio per “portarla a casa”, e temevo anche che la presenza in scena di Mussolini funzionasse male. Prima di girare la scena c’era un po’ di paura da parte di tutti, anche perché rigirarla avrebbe richiesto un grande dispendio produttivo, ma anche quella alla fine è filata liscia.
L’uscita de Il cattivo poeta è stata più volte rimandata a causa della Coronavirus, ma dopo che le sale hanno riaperto a fine aprile è stato uno dei primi film ad essere distribuito, arrivando al primo posto al botteghino. In generale, come pensi che il Coronavirus abbia influenzato la filiera cinematografica? Come mai assieme alla Ascent avete deciso di non diffondere il film su piattaforme streaming come hanno fatto altre produzioni?
Io non avevo potere decisionale circa i tempi e le modalità dell’uscita del film, però mi sono fidato ciecamente di Matteo che in un dialogo continuo con la 01 ha deciso di tenere duro. La 01 Distribution ha il mandato pubblico della sala, per cui non può andare in streaming con la leggerezza e l’autonomia di cui possono godere altri distributori; ma anche Matteo è un produttore che crede ancora ciecamente nel valore della sala e nella necessità specifica di alcuni film di essere visti innanzitutto sul grande schermo. Sapendo che le sale prima o poi sarebbero state riaperte, abbiamo atteso e siamo stati molto contenti di aver vinto questa scommessa. Contestualmente al fatto che era opera prima autoriale, che usciva a fine maggio dopo il Coronavirus, Il cattivo poeta ha avuto un’ottima ricezione al botteghino: un successo del tutto inatteso, soprattutto adesso che sfioriamo il milione di incasso grazie all’apporto venuto dalle arene.
Dopo il successo de Il cattivo poeta stai adesso lavorando a una tua opera seconda?
Sì, sono al lavoro su un’opera seconda, e ho consegnato pochi giorni fa la prima stesura del soggetto. Non posso anticipare niente se non che è un film ambientato a Parigi, e che quindi dovrebbe essere girato in francese e con attori francesi. Sarà prodotto dalla Ascent, presumibilmente in coproduzione con partner d’oltralpe.
Al link la programmazione aggiornata delle Notti di Cinema a Piazza Vittorio e quella del CineVillage Parco Talenti