Pubblicato il 16 Settembre 2021.
di Ludovico Cantisani
Dal 16 al 26 settembre, segnale evidente dello sforzo congiunto delle maggiori istituzioni cinematografiche europee nel voler superare la crisi produttiva e distributiva indotta dal Covid, è in programma a Roma e in alcune località del Lazio, la manifestazione Il cinema attraverso i grandi festival. Realizzata da ANEC Lazio con il contributo della Regione Lazio, la rassegna inizia oggi, giovedì 16, con una selezione di film già in partenza molto incisivi.
Al Quattro Fontane di Roma, adiacente a Via Nazionale, saranno proiettati di fila Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, Il buco di Michelangelo Frammartino e L’Événement di Audrey Diwan, tutti e tre provenienti dalla Selezione ufficiale della Mostra del cinema di Venezia e quest’ultimo vincitore dell’ambito Leone d’Oro; allo storico cinema Farnese di Campo de’ Fiori sono in programmazione invece Shen Kong, Mizrahim, les oubliés de la terre promise e Tu me ressembles, tre film stranieri provenienti dalle Giornate degli Autori del festival veneziano, con una selezione denotata da una scelta più d’essai.
Riservando al discusso film della Diwan una trattazione a parte per quando uscirà nelle sale, in questa prima giornata degli altri film visti a Venezia colpiscono in modo particolare, per le loro affinità e le loro differenze, proprio i due film italiani, Ariaferma e Il buco, anche questo premiato a Venezia, con il Gran Premio della Giuria. Anticipando quanto si potrebbe dire in ultimo su questi due titoli, si tratta evidentemente di due film con un impianto umanista ed esiti esistenzialisti. Il modo in cui in un caso Di Costanzo nell’altro Frammartino plasmano il medium filmico in funzione del loro racconto, e strutturano la loro visione sui contorni di una storia che in entrambi i casi va spiritualmente al-di-là di quelli che sono i meri eventi narrati, è profondamente, fertilmente diverso.
Ariaferma, terzo film di finzione per Di Costanzo che bene o male continuerà a portarsi dietro la qualifica di “documentarista” forse a vita per la brillantezza dei suoi primi lavori appartenenti a un più netto cinema del reale, apre la filmografia del regista campano a dinamiche e situazioni nettamente esistenzialiste, anche in senso proprio – che, in modo curioso ma non imprevedibile, ricordano – forse è banale – sì Kafka, ma anche, più fruttuosamente, Il deserto dei tartari, libro e film.
La storia di Ariaferma è ambientata in un immaginario carcere sardo, che Di Costanzo e la sua troupe, capitanata dallo storico direttore della fotografia di Sorrentino Luca Bigazzi qui quanto mai colto in una rivoluzione stilistica, hanno girato in Sardegna; ma potrebbe accadere ovunque nel mondo. Questo carcere è in smantellamento, ma all’improvviso giunge dai poteri centrali l’ordine di interrompere il trasferimento dei detenuti: gli ultimi dodici restano bloccati nel carcere, sorvegliati da una guarnigione ridotta di secondini.
Inevitabile, in questa situazione di “carcere sospeso”, che inizino a sciogliersi i tradizionali rapporti tra guardie e carcerati, e si vedono dischiudersi dinamiche inattese. In particolare, nonostante e all’interno dell’opposizione gerarchica, tra l’agente Gargiulo interpretato da Toni Servillo e Carmine Lagioia interpretato da Silvio Orlando, dei detenuti quello con la pena più lunga da scontare, ex-camorrista, si lascia intendere.
Se il senso profondo di Ariaferma si consuma tutto nei non-detti, nei gesti, in quanto di implicito vi è nel rapporto tra i personaggi, calati in un contesto atipico, Il buco pare ambizioso e primigenio sin dalla scelta del soggetto. Michelangelo Frammartino infatti, reduce da un silenzio registico di undici anni dopo il successo critico del suo secondo film Le quattro volte, si è lasciato suggestionare dal racconto di una spedizione speleologica davvero accaduta nel cuore della Calabria nel 1961, quando un gruppo di speleologi calatosi in una cavità del Pollino scoprì una delle grotte più profonde del mondo, l’Abisso del Bifurto.
Per la sensibilità di Frammartino quest’esplorazione, di cui ancora restano in vita alcuni dei pionieri, riveste un significato ben più profondo del mero evento in sé racchiuso: e si riallaccia da un lato, per opposizione, al boom economico che in altre zone di Italia esplodeva in quegli stessi anni, dall’altro lato, e soprattutto, a quella considerazione, esplicitata dalle note di regia, per cui cinema, psicoanalisi e speleologia sarebbero nati nello stesso anno. L’anno in questione è il 1895: l’anno in cui i fratelli Lumière proiettarono per la prima volta i loro corti in un café di Parigi, ma anche l’anno in cui nei testi di Freud si trova la prima occorrenza del termine inconscio, nonché l’anno della fondazione, da parte di Edouard-Alfred Martel, della Societé de Spéléologie.
Tutte queste interconnessioni Il buco preso come film a sé non le spiega mai, anzi, non verbalizza nulla: epos senza protagonista e senza dialoghi, Il buco trae il meglio dalla lezione di Vittorio De Seta per teorizzare e nel contempo applicare un cinema fatto di puri gesti, puri corpi, pure immagini.
Quello che emerge, guardando i due film in successione come sarà possibile fare il 16 al Farnese, è la comune e contigua attenzione che Di Costanzo e Frammartino hanno rispetto all’umano, all’umano nella sua singolarità e al tempo stesso colto sempre in una tensione comunitaria. Tanto Ariaferma quanto Il buco – ed è qui, almeno in parte, la loro matrice esistenziale – svelano l’umano anche nell’aspetto della sua caducità, del suo malessere, del suo stare-all-addiaccio, per dirla à la Heidegger, nella visione di un’esistenza senza fuga e senza sconti, almeno per i carcerati e i secondini – è questa l’intuizione profonda – del film di Di Costanzo.
Entrambi, e in maniera assoluta Il buco, sono film fatti per il grande schermo, per la cura delle immagini, per l’ambizione del racconto, anche per l’aspetto sonoro, una dimensione del racconto cinematografico che non si tiene mai nella giusta considerazione. Prima di ogni altra cosa, sia Il buco che Ariaferma, nonostante la patina autoriale che li impreziosisce e li eleva, sono film fatti per un pubblico, il più possibilmente grande: l’universalità quasi archetipica delle loro linee di racconto di fondo li rende due film profondamente umanisti e profondamente empatizzabili, nei confronti dei quali bisogna solo superare quell’inutile impasse che non permette di cogliere quanto i film “impegnativi” risultino al tempo stesso i più emozionanti, a visione finita.
Ariaferma e Il buco meritano la sala anche perché, da un punto di vista più tecnico che cinéphile, entrambi i film vedono all’opera due dei maggiori maestri della fotografia italiana che si reinventano e giungono ad esiti nuovi. Lontano anni luce dalle colorimetrie a cui ci aveva abituato con Sorrentino, ritornando un po’ verso i suoi esordi tra il Gianni Amelio de Lamerica e Lo zio di Brooklyn di Ciprì & Maresco ma connotando il tutto con colori decisamente alla Courbet, il Luca Bigazzi di Ariaferma rappresenta quella più inaspettata delle sue metamorfosi – forse il punto di avvio di una nuova fase del suo percorso, al tempo stesso molto in linea con quella concezione politica del fare-cinema che aveva raccontato ad Alberto Spadafora per il volume La luce necessaria (Artdigiland, 2014).
Seppur non altrettanto famoso come Bigazzi, anche Renato Berta, fuoriclasse del cinema italo-francese classe 1945 e annoverante collaborazioni con registi quali gli Huillet-Straub, Alain Tanner, Jean-Luc Godard, Louis Malle e Mario Martone, giunto a collaborare con Frammartino per Il buco si reinventa: quantomeno perché, non potendo calarsi in prima persona nella profondità delle grotte, si è ritrovato nell’inedita condizione di dover dirigere la fotografia di un film dal monitor, potendosi affidare esclusivamente o quasi alle luci diegetiche che gli speleologi, sullo schermo, portano con sé.
Questo è puro cinema, a ben vedere. E proprio perché è inaspettata la qualità di questi film usciti dopo il Covid e, nel caso di Ariaferma, anche realizzato durante i momenti più duri del lockdown invernale, bisogna premiarli vedendoli sia in queste rassegne che al momento dell’uscita in sala: Ariaferma, distribuito da Vision, uscirà il 14 ottobre, l’arrivo de Il buco, co-prodotto e distribuito dalla Lucky Red, è ancora da annunciare, ma garantito dalla campagna #SoloAlCinema portata avanti dall’acclamata società di Occhipinti.
Nei prossimi giorni, la rassegna de Il cinema attraverso i grandi festival continuerà, permettendo di vedere in anteprima film sia italiani che stranieri presentati e spesso anche premiati a tre dei maggiori festival europei: si va da America Latina dei fratelli D’Innocenzo a Zeros and Ones di Abel Ferrara, da Il silenzio grande di Alessandro Gassmann alla terza prova da regista a Deserto particular di Aly Muritiba, da A Chiara del sempre più lanciato Jonas Carpignano fino ad Un autre monde di Stéphane Brizé. Mescolare i differenti programmi di Cannes, Locarno e Venezia è senza dubbio una scelta vincente, che permette di mettere insieme una rassegna di film di una densità unica: un’occasione senza pari per il ritorno in sala dopo le vacanze estive.