Pubblicato il 7 Ottobre 2021.
Pubblichiamo un estratto dell’introduzione del libro di Marcello Garofalo ‘Il cinema è mito. Vita e film di Sergio Leone’ edito da minìmum fax, che ringraziamo.
“Sono passati trent’anni dalla scomparsa di Sergio Leone e venti dalla prima pubblicazione di questo libro. Tante iniziative nel corso di questi anni sono state prese per ricordarne la statura e celebrarne la memoria: convegni più o meno ufficiali, rassegne cinematografiche e televisive, documentari, restauri dei suoi film, mostre (di cui la più rappresentativa, dal titolo Il était une fois Sergio Leone in coproduzione con la Cineteca di Bologna si è svolta alla Cinémathèque Française da ottobre 2018 a febbraio 2019), gli sono state dedicate strade, una targa nel quartiere romano di Trastevere, un fumetto (in Francia) che lo ricolloca nella Spagna del 1965 all’epoca di Per qualche dollaro in più, uno spettacolo teatrale e anche un francobollo emesso dalle Poste Italiane esattamente il 30 aprile 2019 (la cui tiratura è indicata in 2,5 milioni di esemplari), dove in primo piano compare un suo ritratto con sullo sfondo le montagne iconiche della Sierra Nevada e un pistolero vagamente somigliante a Henry Fonda nell’atto di estrarre la sua Colt.
Il primo pensiero, unito a un persistente rammarico, è che Leone sia scomparso davvero troppo presto. Aveva sessant’anni e aveva appena firmato l’accordo con i partner sovietici per la realizzazione del film sull’assedio di Leningrado. Era in procinto di partire per gli Stati Uniti dove avrebbe concluso la trattativa anche con gli americani. La sua morte improvvisa ha invece messo la parola fine a un lavoro che secondo le dichiarazioni del regista non sarebbe stato pronto prima di tre anni: «Ci vorrà un anno per la scrittura, sei mesi per la preparazione, altri sei mesi di riprese, e infine ancora un anno per l’edizione».(1) Leningrado (questo l’ultimo titolo provvisorio) (2) sarebbe stato con ogni probabilità un film memorabile non solo per la natura della coproduzione tra Italia, Stati Uniti e Unione Sovietica, per la maniera attraverso la quale Leone intendeva raccontare i novecento giorni terribili dell’assedio («Pensate a Via col vento, una storia d’amore, anche quella, sullo sfondo della guerra»), (3) ma soprattutto perché il regista che aveva tradotto Goldoni e Kurosawa nel West, reinventato un genere con l’occhio di un mangiatore di film e l’animo disincantato, ironico, della romanità, e che, dopo vent’anni, aveva finalmente messo in scena, risalendo perfino al teatro delle ombre cinesi, l’America dei suoi sogni, era consapevole di una difficoltà, di una necessità ineludibile: quella di offrire al suo spettatore, film dopo film, un numero, un godimento, un piano sempre più alto di rimandi, simmetrie, incroci narrativi anche autoreferenziali e metacinematografici, ma senza ostentazioni o sottolineature, con la convinzione e il piacere di dover presentare uno spettacolo difficilmente comparabile ad altri. Sofisticato senza essere elitario, complesso senza essere oscuro, Sergio Leone ha unificato il pubblico (magari mostrando quanto sprovveduto potesse essere il pubblico colto, ma questo è un altro discorso), è stato forse proprio il primo regista italiano a credere con logica da «postmoderno» che il neorealismo e la commedia italiana erano il «moderno» da superare.
Leone portava nella mente un buonumore, qualcosa di deliziosamente infantile, che in lui precedeva qualsiasi esperienza della vita, forse il rimedio più diretto per allontanare le ansie e le angosce. Amava nel cinema soprattutto e soltanto il Cinema. Ma se veniva assalito dallo spirito del gioco, derideva con gusto le verità e le pseudoverità che sostengono l’edificio del mondo e di quest’arte.
Era posseduto, come il Baron Corvo, dal «desiderio e dalla ricerca del tutto». Pensava che il Cinema potesse raccogliere e concentrare in se stesso l’universo: niente poteva restare escluso: l’enciclopedia dei sentimenti, il passato, il presente, il futuro, il tempo, lo spazio. Eppure, mentre raccoglieva questo tutto, era consapevole, trasformandolo in un film, di mutarlo in qualcosa che «c’era solo una volta» e non più, in qualcosa di irreparabilmente perduto.
Nel 1987 ho avuto il piacere e l’opportunità di realizzare insieme a lui un libro su C’era una volta in America; ho avuto modo di frequentarlo e di parlargli molte volte, di conoscere da vicino anche la difficoltà di impostare un progetto tanto smisurato come Leningrado; ricordo con precisione un giorno di maggio in cui era particolarmente affranto per la lentezza con la quale procedevano le trattative con i partner dell’Unione Sovietica e di avergli detto: «Non si preoccupi, perché anche se dovessero opporre un veto insormontabile alla realizzazione del film, lei ha già girato C’era una volta in America». Lui mi guardò al di sopra delle lenti e sorrise.” (segue)
© Marcello Garofalo, 1999
© minimum fax, 2020
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Note
(1) Fabio Squillante, «Leone: “Con De Niro assedio Leningrado”», Corriere della Sera, 12 gennaio 1989.
(2) Leonetta Bentivoglio, Bruno Blasi, Marco Giovannini, «E l’Italia fa ciak», Panorama, 5 febbraio 1989, p. 91: D.: «Leningrado è il titolo definitivo?»; R.: «No. Mi piacerebbe che lo fosse». E ancora Giulietto Chiesa, «Leone a Mosca… Si farà il kolossal su Leningrado», L’Unità, 12 gennaio 1989, D.: «Perché chiamarlo Leningrado?»; R.: «Perché è un titolo semplice, attraente, misterioso. Perché vuol dire molte cose. Ma poi, forse, verranno fuori altri titoli». Dopo la scomparsa di Leone, molti nomi si sono avvicendati per cercare di portare sullo schermo l’ultimo progetto del regista; tra questi, c’è quello di Giuseppe Tornatore, il quale per diciassette anni ha cercato una strada per realizzare un grande film dedicato all’assedio, per poi chiudere definitivamente la partita e affidare a un libro (Leningrado, di Giuseppe Tornatore e Massimo De Rita, Sellerio, Palermo 2018) l’ultima mossa. È importante puntualizzare che la sceneggiatura – invero pregevole – scritta dal regista con Massimo De Rita, pure intitolandosi semplicemente Leningrado come Leone avrebbe voluto denominare il suo film, non ha nulla a che vedere con la storia d’amore contrastata che Leone avrebbe voluto raccontare: Tornatore sceglie la storia – con relative peripezie – di una numerosa famiglia di leningradesi, capeggiata da un’indomita violoncellista. Alla fine ne deduce che il film non si è mai realizzato per una serie di motivi che esulano dalla bontà o meno del progetto in termini cinematografici: «[…] I russi non ci tenevano a fare il film, perché non volevano che si riaprissero ferite profonde e raccontare al pubblico di ogni paese pagine troppo tristi della loro storia. A Hollywood, d’altra parte, non potevano amare l’idea di finanziare un prodotto con un budget così alto, solo per ricordare al mondo che il nazismo era stato sconfitto dai bolscevichi» (Leningrado, cit., pp. 73-74). Inoltre, Tornatore sottolinea la furbizia alla base dell’idea di Leone nel voler «avvitare il racconto intorno alla figura di un reporter americano, rientrando nei canoni di una formidabile licenza cinematografica» (ivi, p. 14), un «falso storico» che avrebbe potuto consentire la partecipazione di capitali da parte dell’industria hollywoodiana.
3. Giulietto Chiesa, «Leone a Mosca…», cit.
Il cinema è mito
Vita e film di Sergio Leone
Marcello Garofalo
minimum fax
Pagine: 544
Pubblicazione: febbraio 2020
Prezzo: 20 euro