Pubblicato il 1 Settembre 2021.
a cura di Ludovico Cantisani
Mauro Mancini (1978) è un regista italiano. Dopo una laurea in Comunicazione e la regia di alcuni cortometraggi e webserie, esordisce al lungometraggio nel 2020 con Non odiare, presentato alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Venezia. Interpretato da Alessandro Gassmann, Sara Serraiocco e Luka Zunic, Non odiare si concentra su Simone Segre, un affermato chirurgo di origini ebraiche che, soccorrendo un uomo apparentemente vittima di un incidente stradale, quando si accorge che ha una croce celtica tatuata sul petto lo lascia morire; a poco a poco però Segre si avvicina alla famiglia del morto, assumendo come colf la figlia maggiore Marica e trovandosi suo malgrado a confrontarsi anche col figlio naziskin Marcello.
Dopo il grande successo ai botteghini dello scorso autunno, Non odiare viene proiettato alle Notti di Cinema a Piazza Vittorio il 1° settembre, introdotto da un incontro con il regista Mauro Mancini.
Qual è stato il tuo percorso come regista e sceneggiatore prima di arrivare al lungometraggio?
Ho avuto un percorso poco standardizzato: sono laureato in Scienze della Comunicazione e non ho fatto nessuna scuola di cinema; parallelamente al corso di studi universitari ho cominciato a fare dei piccoli lavori da videomaker con l’intenzione di diventare regista, e a scrivere dei soggetti. Da un certo momento in poi da quelle storie ho tratto dei cortometraggi. Due incontri sono stati importanti nel mio percorso: il primo è stato quello con la Fondazione Telethon, per la quale ho raccontato diverse storie in forma di cortometraggio, una collaborazione che tuttora prosegue: tra qualche giorno, assieme a Mario Mazzarotto che ha prodotto anche Non odiare, girerò un altro cortometraggio per RAI Cinema e Telethon. Il secondo incontro importante è stato quello con il mondo della pubblicità, soprattutto della pubblicità che lavora per il sociale: ho cominciato a fare spot e campagne pubblicitarie, e intanto sviluppavo alcuni progetti di lungometraggio. Dopo qualche falsa partenza, dopo l’incontro con Mazzarotto è stato possibile realizzare Non odiare.
Qual è stato lo spunto iniziale di ispirazione per te e per il co-sceneggiatore Davide Lisino?
Io e Davide abbiamo letto un piccolo trafiletto su un giornale: un medico in Germania si era rifiutato di compiere un’operazione su un paziente che aveva tatuato sulla spalla un’aquila del Terzo Reich; il medico, uscendo dalla sala operatoria, dichiarò che non poteva compiere l’operazione perché andava contro la sua morale. Quella dichiarazione nello specifico ci colpì tantissimo, implicava una contraddizione umana, morale e anche professionale fortissima: replicare la stessa situazione all’inizio di un film, forzandola drammaturgicamente su toni più drammatici, poteva essere un incipit perfetto. Abbiamo fatto così, rendendo ovviamente il tutto più drammatico: all’inizio di Non odiare il protagonista deve letteralmente fare una scelta fra la vita e la morte. Nella realtà dei fatti, semplicemente un altro medico dell’ospedale ha operato il paziente neonazista: nel film, l’unica possibilità di salvezza per l’uomo che ha avuto l’”incidente” è Simone Segre, e quando lui si accorge che porta una croce celtica sul petto decide di lasciarlo morire.
A quali precedenti modelli cinematografici avete guardato per delineare poi la struttura narrativa del film?
Noi non abbiamo avuto né un modello né un film preciso a cui ispirarci. Io e Davide abbiamo un percorso diverso anche come spettatori, lui è più legato ai cosiddetti film di genere, io ai film “classici” e volevo che anche Non odiare fosse a suo modo classico, nella struttura e nella messa in scena: penso che questo termine abbia tutt’oggi un valore; io stesso però ho un background come spettatore molto vario, passo fluidamente tra Walter Hill ed Ernst Lubitsch. Ciò che del cinema appassiona davvero me e Davide – come chiunque altro – sono le buone storie: se poi si tratta di un film di genere, di una commedia, o di quello che viene definito film d’autore in Italia non importa, ciò che conta è raccontare buone storie, e storie che siano necessarie. Il terreno forse comune tra me e Davide stava proprio qui, in un’estrazione dal cinema di impegno civico: quindi Elio Petri e Roberto Rossellini.
Quale squadra produttiva ha permesso la realizzazione di Non odiare?
L’impianto produttivo è esso stesso molto classico: il produttore è Mario Mazzarotto della Movimento Film, che ha co-prodotto il film con RAI Cinema e con una produzione polacca, la Agresywna Banda di Alessandro Leone. Non odiare è stato reso possibile anche da una serie di aiuti ministeriali e regionali, come di solito si fa per montare un’opera prima in Italia. La co-produzione della Polonia ha portato in produzione anche il direttore della fotografia del film, Mike Stern Sterzynski, che ha letto la sceneggiatura e gli è piaciuta molto, al punto di investire anche lui una piccola quota nel progetto.
In che modo è stato coinvolto nel progetto Alessandro Gassmann, e come hai impostato il lavoro con lui?
Non conoscevo personalmente Alessandro, e come da prassi gli abbiamo mandato la sceneggiatura attraverso il suo agente. Qualche settimana dopo mi arrivò un messaggio da un numero di telefono che non avevo in memoria: “ciao, sono Alessandro Gassman, ho letto il tuo film e mi piacerebbe farlo”. Ho dovuto rileggere il messaggio due o tre volte perché quasi non ci credevo, poi ci siamo visti qualche giorno dopo in un bar al centro di Roma. Alessandro è stato sin da subito uno dei primi fan del progetto e della sceneggiatura, mi disse che l’aveva amata molto perché l’aveva trovata molto asciutta. Aggiunse addirittura “se possibile fammi parlare ancora meno”: un attore che dice una frase così ti colpisce, aveva capito da subito lo spirito del film e le mie intenzioni registiche, che andavano verso una sottrazione, sia nella messa in scena che nel lavoro con gli attori.
Come hai scelto invece Sara Serraiocco e Luka Zunic per la parte dei due figli maggiori dell’uomo che Segre non salva?
Sara Serraiocco, al pari di Gassmann, era l’attrice a cui pensavo mentre scrivevo: averla è stato un regalo bellissimo, è sempre meraviglioso quando immagini due attori in carne ed ossa a interpretare i tuoi personaggi e ti ritrovi davvero sul set con loro. Per Marcello, il personaggio di Luka, è stato fatto un lunghissimo casting, sembrava un’impresa impossibile trovare un ragazzo adatto alla parte. A pochi giorni dalla fine della sessione di provini, si presenta da noi Luka che era forse il ragazzo più antitetico al personaggio descritto in sceneggiatura: portava orecchini enormi, aveva il doppio taglio ed era vestito da trapper, certo non poteva essere scambiato di primo acchito per un neonazista. Quando ho guardato Luka negli occhi però ho pensato che, trasformato, con quello sguardo poteva essere davvero Marcello, e allora mi dissi “speriamo faccia un buon provino”. Luka fece un ottimo provino, chiamai subito Sara e facemmo un callback insieme il giorno dopo: visti uno accanto all’altro si è confermata l’intuizione del primo incontro, e ho confermato Luka nel ruolo.
Come hai preparato i due giovani attori alla parte?
Con Sara e Luka ho preparato il film dall’estate 2019, diversi mesi prima dell’inizio effettivo delle riprese, facendo delle prove soprattutto per Luka. Sara è stata molto disponibile in questo: anche sul suo personaggio abbiamo lavorato molto, ma dovevo concentrarmi su Luka, che era un esordiente. Aver già “consumato” molte scene prima di girarle ha reso molto rapida la realizzazione sul set, perché avevamo già le idee chiare. Per preparare al meglio Luka alla parte ho provato una doppia strategia: non gli ho fatto leggere tutta la sceneggiatura, ma solo la sua parte, perché non volevo che sapesse troppo del film in generale. Gli ho fatto poi indossare gli abiti del personaggio già da due mesi prima dell’inizio delle riprese: anche grazie all’aiuto della costumista Catia Dottori, volevo davvero che Luka si sentisse addosso letteralmente i “panni” del suo Marcello, e che si abituasse a muoversi agevolmente vestito da neonazista; mi preoccupavano soprattutto gli anfibi, che all’inizio per Luka non erano facili da indossare visto che lui è abituato a indossare scarpe da ginnastica. Quando è arrivato sul set Luka era pienamente pronto a interpretare il ruolo, anche grazie alla preziosa mano di Alessandro e Sara.
Che scambi hai avuto sul set con Alessandro Gassmann, e quale interazione si è creata fra i tre attori?
Lavorare con lui sul set è stato affascinante, è un professionista incredibile e un attore talentuosissimo. Per ogni scena conosce le battute di tutti, anche del passante che sta sul fondo. Alessandro è un attore a cui bastano pochissime indicazioni per trovare esattamente l’intenzione che il regista sta cercando, e aveva molto chiaro in testa il suo personaggio, lo sentiva davvero suo. Anche con lui ho avuto la possibilità di fare delle prove prima, e questo ci ha ulteriormente agevolato. La cosa forse più bella che Alessandro ha regalato al film è stata che lui ha trattato sia me che il co-protagonista Luka Zunic, di fatto due esordienti, come un regista e un attore navigati: questo ci ha permesso di avere un rapporto alla pari ed è stato centrale sin dal primo giorno per la buona riuscita del progetto. Anche Sara Serraiocco è stata molto utile in questo, nel far sentire sicuro Luka sul set. Per girare Non odiare avevamo a nostra disposizione soltanto cinque settimane di riprese, ma le molte prove e letture fatte durante la pre-produzione ci hanno aiutato tantissimo a rispettare i tempi sul set.
La scena iniziale di Non odiare è molto forte, e mostra Simone, da piccolo, essere costretto dal padre, sopravvissuto a un Lager, a gettare in un fiume una cucciolata di gatti. Da cosa deriva questa scena e come mai hai deciso di iniziare il film così?
La scena è un’intuizione che deriva da un episodio biografico mio: è una cosa che vivevo, non in maniera così drammatica, con mio nonno, che essendo legato a un passato rurale e contadino nel grande casale in cui vivevano spesso si sbarazzavano così delle cucciolate di gattini. Quando nascevano dei nuovi gatti mio nonno mi faceva scegliere il più bello, e qualche giorno dopo trovavo solo quello. Mi colpiva molto in particolare la frase, “scegli il più bello”, al tempo stesso suggestiva e feroce: forse era un suo modo per alleggerire quel gesto terribile che doveva fare, ma, quasi quarant’anni fa, nelle zone rurali era e forse è tuttora di uso comune. Ho raccontato questo fatto a Davide, e insieme abbiamo deciso di trasporre quella che era una mia esperienza personale alla scena iniziale del film. La scena ha diversi significati per noi. Non volevo fare un film a flashback, quindi ci siamo concessi solo quella scena per far luce sul passato di Simone Segre e sul suo rapporto col padre: serviva che ne risultasse un padre severo, che spingesse il figlio a fare qualcosa di talmente crudele che lo spettatore potesse immaginare cosa aveva voluto significare per Simone crescere accanto a lui. Noi non raccontiamo esattamente quello che è successo tra loro due, non mi interessava specificarlo: si doveva solo capire che quel padre aveva fatto dei danni ad ampio spettro, così come il padre nazista di Marcello e Marica.
In che modo hai sviluppato la tematica della genitorialità, e della perdita dei padri, in quella prima scena e in generale nel corso di Non odiare?
Per me Non odiare è un film sul rapporto tra le generazioni e sul lascito generazionale, su cosa lasciamo ai nostri figli e su quanto l’insegnamento dei padri possa danneggiare le generazioni future. La scena iniziale voleva suggerire che quello fra Simone e suo padre fosse un rapporto fatto di severità e in qualche modo di crudeltà; e lascia capire come che anche quel padre fosse a sua volta danneggiato, perché in una o due inquadrature si vede un numero tatuato sul braccio, facendo capire che è sopravvissuto a un campo di concentramento. Le sue parole e l’atteggiamento che ha col figlio fanno capire che lui vuole trasmettere un concetto ben preciso al bambino, che c’è una linea invisibile che separa “quelli che scelgono” e “quelli che vengono scelti”. L’uomo ha subito in prima persona quell’esperienza, nei lager c’era esattamente la stessa logica: dei prigionieri messi su una riga, e dall’altra parte degli aguzzini che con un “sì” o con un “no” decidevano la vita e la morte degli ebrei; in qualche modo, la scena iniziale è una metafora di quello che accadeva nei campi di concentramento, rapportato all’immaginario di un bambino: i gattini sono innocenti, al pari degli internati del Lager. Anche ambientare una scena così crudele in un paesaggio così bello aveva ulteriori valenze: è un contrasto molto forte che si riallaccia al “scegli il più bello” del padre, la bellezza forse può salvarti, ma al prezzo di un’azione comunque crudele.
Nel prosieguo del film, su quali criteri tu e Davide Lisino avete costruito i personaggi e sviluppato il loro rapporto? Dopo l’incipit e la scena che dà l’avvio alla vicenda di Simone da adulto, la struttura del film sembra evitare il più possibile gli schematismi etici.
Io e Davide abbiamo cercato di fare un discorso ad ampio spettro: il nostro intento, rispetto a Non odiare, era cercare di privarci di qualsivoglia pregiudizio sui personaggi che andavamo a raccontare. Certo non volevamo fare un film a tesi, con dei buoni da una parte e dei cattivi dall’altra. Gli esseri umani non sono bianchi e neri, sono fatti soprattutto di grigi e per me la massima espressione di questo tipo di cinema può essere Elio Petri, che citavamo già prima: Petri è un cineasta per me importantissimo, che ha preso di petto temi importantissimi che riguardavano tutti noi, la società, l’essere civile, problematizzandoli e caricandoli di sfumature. Il cinema che interessa a me è un cinema che ti mette davanti a dei fatti che lo spettatore deve analizzare, frammentare, e a volte anche giudicare. In scene come quella in cui Simone decide di non salvare la vita all’uomo con il tatuaggio della svastica, spero sempre che lo spettatore si chieda cosa avrebbe fatto al posto del personaggio.
Una scena molto significativa in questo senso, pur nella sua brevità, è quella in cui Simone Segre, che poco prima ha subito un’aggressione da parte del gruppo di neonazisti di cui fa parte anche Marcello, reagisce in maniera molto brusca contro un immigrato che sta provando a pulire i vetri della macchina su cui viaggia. Cosa volevi suggerire con questa scena?
Quella scena sta a seminare un’idea molto particolare: innanzitutto, che l’odio è un “virus”, forse il virus più pericoloso che abbiamo, molto più del Covid. L’odio si muove proprio come un virus, perché si tramanda da persona a persona, e stando a contatto con quel sentimento, il personaggio di Simone Segre a un certo punto lo esprime anche. Di quell’attacco di rabbia si pente subito dopo, e anche lui resta sorpreso dalla sua stessa reazione: ma è una reazione che tutti noi abbiamo visto tantissime volte in strada, quell’espressione di rabbia che implicitamente esprime intolleranza, e che sgorga in maniera improvvisa e irruenta. Simone la fa sgorgare in quel momento, anche perché è molto facile esteriorizzare e “usare” un sentimento di rabbia contro chi è più debole di noi: non è però una reazione che vuole fare a tavolino, non gli appartiene e razionalmente non avrebbe mai fatto così; ma, istintivamente, è quella la reazione che ha. Questo è molto pericoloso quando accade, perché alla lunga c’è il rischio che diventi normalità: e la possibilità che un atteggiamento come quello che Simone ha in quel momento diventi normalità mi fa sinceramente molta paura.
In generale, lungo tutto Non odiare c’è un certo sottotesto relativo all’immigrazione, al razzismo, a una certa diffidenza discriminatoria verso gli immigrati…
Un’altra scena simile è quando Marica torna a casa in autobus, e quando si siede accanto a lei una donna di colore si scosta leggermente, infastidita. Anche in questa breve si esprime, forse in maniera meno forte ma subdolamente più violenta, la paura verso qualcuno che ti sta accanto ma che tu riconosci come estraneo e come in ultimo repellente. Di questo è responsabile anche certa comunicazione politica: a furia di ripetere per mesi e anni messaggi xenofobi, certe distorsioni appaiono vere, ma vere non sono. In questo momento magari ci sono sbarchi di migranti in Sicilia, e si indicano in quei “clandestini” come possibili “disturbatori” dello status di quieto vivere che abbiamo guadagnato: ma la verità non è questa. Adesso che si devono aprire corridoi umanitari con l’Afghanistan, si stanno preparando nuovamente delle linee di comunicazione in contrasto con questa esigenza umanitaria, delle linee di comunicazione politica che vogliono dividere tra un “noi” e un “loro”, quando invece dovremmo tentare di riconoscerci solo come esseri umani. È quello che tentano di fare i personaggi di Non odiare, e forse per un secondo si riconoscono, si guardano negli occhi e si riconoscono la rispettiva umanità.
Alcune scene del film, come il recupero della menorah dalla casa del padre o la scena del ritorno in sinagoga, sembrano suggerire che l’incontro col neonazista morente, e le “persecuzioni” subite dal figlio, acuiscano e facciano risvegliare il senso di identità e il rapporto con le origini ebraiche nel protagonista Simone. In che modo pensi che le discriminazioni possano paradossalmente risvegliare il sentimento identitario di un singolo o di una comunità, e oltre quale misura secondo te questo risveglio identitario può avere a sua volta degli esiti violenti e in ultimo discriminatori?
Quelle scene vogliono esprimere un riavvicinarsi alla propria identità, ma ancor di più alla figura del padre, che rappresenta quell’identità. Quando il protagonista viene aggredito dalla banda di naziskin di Marcello, invece di tornare a casa sua torna a casa del padre: secondo me, Simone in quel momento capisce quello che ha provato il padre, perché ha avvertito sulla sua pelle le sensazioni che lui ha subito durante gli anni della persecuzione nazista. Dorme nel letto del padre e l’indomani, trovando la menorah, la porta con sé per conservarla: ma ovviamente è anche un oggetto sacro, e un oggetto che testimonia la sua identità e il suo essere ebreo. Non so se forzando la mano su questi schematismi identitari ci sia il pericolo che anche dalla parte delle vittime si risvegli un senso di violenza, immagino di sì: è così che ci comportiamo su tutti i livelli, non soltanto rispetto all’elemento religioso. Se qualcuno ti spinge in una direzione in cui tu non vuoi andare, a un certo punto si suscita l’effetto contrario, e si risveglia l’istinto per cui da vittima si diventa carnefice.
Questo passaggio da vittima a carnefice non si fa mai esplicito, ma sembra una tematica latente di Non odiare.
È un po’ il gioco del film: in Non odiare abbiamo voluto sfumare i “buoni” e i “cattivi”. Per noi chi ha rappresentato il Male lo ha rappresentato la Storia, ed è stato il nazifascismo. Non odiare non è un film su nazifascismo, o sul neonazismo: abbiamo voluto fare un film sugli effetti del nazismo sull’oggi. Il nazifascismo storicamente è stato una sorta di “sasso nello stagno”, che ha provocato delle onde concentriche via via sempre più distanti, ma ancora presenti. Oggi ci troviamo metaforicamente su onde molto esterne rispetto al “sasso” gettato negli anni trenta e quaranta del secolo scorso, ma quella ferita brucia ancora, e dobbiamo occuparci delle conseguenze di quel male. Non ha senso però continuare ad affrontare queste tematiche come “tifosi”, dicendo solo “questo è giusto” e “questo è sbagliato”, invece che cercare di intravedere tra le righe e di capire le ragioni dell’altro.
In che senso “capire le ragioni dell’altro”?
È necessario capire le posizioni di queste persone, anche di chi incomprensibilmente vuole negare l’esistenza dei Lager, che è una cosa per me fuori da ogni logica, invece che fare semplicemente muro. Se non ci interessiamo del punto di vista dell’altro, è difficile comprenderlo ed è difficile farlo cambiare. Ho sempre pensato che se Non odiare spingerà qualcuno con idee diverse dalle nostre a ragionare su queste tematiche, sarebbe già un punto di partenza. È quello che Marcello fa alla fine del film: lui non è cambiato, ma sta forse iniziando a riflettere. La scena finale, che mostra il personaggio di Paolo al cimitero, ha sempre rappresentato per me un piccolo monito: occupiamoci dei vari Paolo, di chi compie quel gesto senza conoscerne il significato.
In un testo del 2015 ma tutt’altro che datato, lo scrittore e blogger Wu Ming 1 si proponeva di indagare tra i “fantasmi” del Nord-Est d’Italia, tra rancori repressi risalenti all’epoca della Grande Guerra e curiosi risvegli nazionalistici che arrivavano fino a simpatizzare per Putin. La scelta di ambientare Non odiare in una città di confine come Trieste a che punto della fase di scrittura o di produzione si è concretizzata? Al di là del sostegno dato dalla Friuli Venezia Giulia Film Commission, quali sottotesti ti ha permesso di aggiungere al film?
Trieste è stato un valore aggiunto enorme per Non odiare. Era un’idea nata già in fase di scrittura: da un certo momento in poi, io e Davide abbiamo iniziato a pensare a Trieste come l’unica città possibile per ambientare il film. Trieste aveva diversi elementi che Mario Mazzarotto è stato molto bravo a incastrare, collaborando anche con la Commission per concretizzare l’intuizione che avevamo avuto lavorando alla sceneggiatura del film. Mi interessava una città che fosse al tempo stesso mitteleuropea e italiana. Volevo un film nordico, non un film mediterraneo, non un film “italiano” come colori e come luminosità. Volevo parlare innanzitutto all’Europa, per poi parlare potenzialmente a tutto il mondo, senza limitare l’immaginario all’Italia. Anche con gli attori, abbiamo usato spesso la parola “nordico” per definire le sensazioni che provano i loro personaggi. Trieste mi interessava moltissimo perché è una città che più volte ha avuto a che fare con l’odio: da Trieste sono state promulgate da Mussolini le leggi della Difesa della Razza, per dire, e in più è una città con delle geometrie, con un suo forte estetismo. Al tempo stesso siamo arrivati però a trattare Trieste un po’ come un “non-luogo”, come una qualunque città del Nord-Est d’Italia: non c’è un personaggio che dica “siamo a Trieste”, solo chi conosce di suo la città la riconosce anche nel film. Tutte queste sono volontà artistiche che il regista deve sempre portare al vaglio del produttore: l’ottima Film Commission triestina ha permesso di chiudere il cerchio e di girare lì dove si era pensato. Grazie a Mazzarotto e alla Film Commission le ragioni artistiche si sono sposate con quelle di opportunità produttiva, ed è stato perfetto il connubio.
Dopo la presentazione a Venezia, Non odiare è uscito al cinema il 10 settembre 2020, nell’interregno di apertura delle sale tra i due lockdown, incassando la cospicua cifra di quattrocentomila euro. Quanto pensi sia stato importante per il tuo film il fatto di essere vissuto sul grande schermo?
La presentazione a Venezia è stato l’inizio più bello che potessi desiderare per Non odiare, era stato il primo festival a riaprire dopo il lockdown di marzo-maggio, e anche emotivamente è stata un’edizione importante, nel far ritrovare assieme i professionisti del cinema. L’uscita, avvenuta solo quattro giorni dopo la première a Venezia, mi ha permesso di seguire il film in giro per l’Italia, nonostante le molte difficoltà provocate dalla pandemia e dalle restrizioni. Vedere Non odiare in sala assieme agli spettatori è stato meraviglioso: è stato molto bello sentire sulla propria pelle la reazione del pubblico. La sala è viva, la sala respira, la sala si commuove insieme a te, o, se va male, può anche decretare imbarazzanti sconfitte: c’è sempre un margine di tensione a stare in sala a vedere il proprio film. Nel mio caso fortunatamente è stata sempre una bella sensazione, e il calore con cui Non odiare è stato accolto da un lato mi ha sorpreso e dall’altro mi ha avvolto.
Per ipotesi, avresti accettato un’uscita su piattaforma? In generale, quale pensi dovrebbe essere un’ottimale interazione tra sale e piattaforme?
Non credo che avrei ceduto a un’uscita diretta su piattaforma, sinceramente, avrei lottato per uscire prima in sala e poi su piattaforma: senza nulla togliere alle piattaforme, che sono importantissime nella catena distributiva in questo momento, e soprattutto durante il lockdown ci hanno permesso di continuare a godere di film e di narrazioni. Dal mio punto di vista le piattaforme di streaming sono anch’esse necessarie al pari delle sale, ma implicano una dimensione emotiva diversa: e la magia che si crea nella sala credo che difficilmente possa essere replicata da casa. Il cinema è l’espressione di una visione collettiva, e vorrei che rimanesse tale, che la sala non morisse mai. Per me andare al cinema è vitale, è come respirare; poi per allungare il percorso di un film le piattaforme sono indispensabili. Le due cose non devono essere in conflitto, non si deve tornare alla dicotomia binaria di cui parlavamo prima: sala e piattaforma devono trovare un modo di convivere, perché sono entrambe importanti.
Stai lavorando a qualche nuovo progetto?
In questo momento, con Davide Lisino e Flaminia Gressi, stiamo lavorando sul mio o meglio sul nostro secondo film. Speriamo di poterlo girare al più presto: stiamo chiudendo adesso le prime stesure della sceneggiatura. Il produttore è sempre Mario Mazzarotto di Movimento Film, ma ancora non posso anticipare nulla!
Nella foto in alto, sotto al titolo, il regista Mauro Mancini sul set di Non Odiare © Massimo Tommasini