Pubblicato il 6 Agosto 2021.
Intervista a Daniele Nannuzzi sulla fotografia di Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky
di Ludovico Cantisani
Daniele Nannuzzi (Roma, 1949) è uno dei principali direttori della fotografia italiani, presidente della storica associazione di categoria AIC. Figlio del noto cinematographer Armando, dopo una lunga gavetta sui set del padre e un’importante esperienza alla seconda unità del Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, Daniele Nannuzzi esordì alla fotografia nel corso degli anni ottanta. Tra i molti film da lui fotografati, Il giovane Toscanini e l’Omaggio a Roma di Zeffirelli, El Alamein, Il capo dei capi e Due partite di Enzo Monteleone, Senso ’45 di Tinto Brass; molto attivo anche in televisione, è sua la fotografia di serie tv storiche quali Io e il duce, Il segreto del Sahara o La primavera di Michelangelo, e negli ultimi anni si è affermato anche nel campo dell’illuminazione di spettacoli teatrali ed opere liriche. Nel 1989 fotografò Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky, prodotto da Claudio Argento, fiaba surrealista dai toni dark ambientata in una Città del Messico barocca e sanguinolenta.
Come nacque il tuo coinvolgimento in Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky, uno dei primi titoli da autore della fotografia dopo vent’anni di “gavetta” come operatore?
Io sono molto felice del fatto che la mia filmografia sia piena di film atipici e diversi l’uno dall’altro, tra queste “occasioni” metto sul podio l’incontro con Jodorowsky. Immagino che quando sia venuto a Roma gli abbiano proposto dei nomi, e Claudio Argento, co-produttore del film, mi abbia indicato tra i favoriti: fatto sta che quando mi chiamarono era già deciso che sarei stato io il direttore della fotografia di Santa Sangre.
Quali furono le tue prime impressioni, dell’incontro con Jodorowsky?
Andando all’appuntamento fissato dalla produzione io mi aspettavo di trovare un individuo pieno di tatuaggi e di orecchini, invece mi incontrai con questo signore tranquillissimo, talmente tranquillo e pacato da sembrare un ragioniere. Rimasi non deluso ma un po’ sorpreso dai suoi modi, dalla sua gentilezza, ma poi vidi che aveva un sorriso ammaliatore degno di un incantatore di serpenti, e intuii il tipo di persona che avevo realmente di fronte: si vedeva che Jodorowsky ti capiva, ti scrutava dentro…
Cosa ti indusse ad accettare il progetto, e quali furono i primi input fotografici che Alejandro Jodorowsky ti diede?
Io ero molto incuriosito dal progetto. Avevo dei ricordi molto lontani dei suoi film precedenti, La montagna sacra e El Topo, ma le immagini più belle mi tornarono subito alla mente. Francamente però io continuavo a non capire perché Jodorowsky mi volesse per ritrarre un mondo così lontano dal mio. Mentre lavoravamo assieme alla preparazione del film mi feci coraggio e chiesi con grande semplicità ad Alejandro perché avesse voluto me, e così capii non solo le ragioni del mio coinvolgimento ma anche il tono della fotografia che lui si aspettava.
Perché, come rispose Jodorowsky?
Jodorowsky mi disse che aveva scelto me dopo aver visionato Il giovane Toscanini di Zeffirelli. Sono rimasto di stucco: il film di Franco era così prepotentemente romantico, ottocentesco, pieno di oro, di preziosità visive, la storia che avevo letto era tutta un’altra cosa. “Oddio, così mi porti ancora più fuori strada”, ma Alejandro mi interruppe: “Io voglio che tu fotografi lo squallore di Città del Messico con la stessa sontuosità con cui hai girato Il giovane Toscanini. Devi fotografare la merda di Città del Messico con la stessa eleganza”. Jodorowsky mi fece capire che quello che lui voleva da me era un film “barocco”, un film esasperato nella scelta dei colori e delle atmosfere, una sorta di “musical metropolitano”, come poi venne definito dalla critica.
Come fu l’impatto con la realtà di Città del Messico, la vera protagonista del film?
Alejandro mi volle con sé due settimane prima dell’inizio del film, girammo per la città dalla mattina alla sera, una città di 20 milioni di abitanti, 17 milioni di automobili, dove lo smog il rumore e il caldo sono insopportabili, dove i moderni grattacieli fanno da cornice a fatiscenti baracche e palazzi irrimediabilmente minati dall’ultimo terremoto, una città piena di contraddizioni dove centinaia di prostitute abbordano i loro clienti sul sagrato di una chiesa, dove migliaia di bambini si stanno uccidendo lentamente, drogandosi, aspirando i vapori di una colla sintetica che si può acquistare per pochi Pesos. Nella mia mente il Messico era rappresentato dai vecchi film in bianco e nero, magistralmente fotografati da Gabriel Figueroa, con i cieli tormentati di nuvole, le case bianche le scene idilliache fatte di sombreri e chitarre, l’atmosfera tersa e pulita. Ma già dall’incontro con Alejandro a Roma e dalla storia che avevo letto, capii che non era quello il Messico che lui voleva raccontare, ma quello torbido dei quartieri dove la povertà, la corruzione e il vizio raggiungono livelli inimmaginabili.
Quanto pensi che le suggestioni accumulate in quelle due settimane di preparazione abbiano influito sulla tua fotografia per il film?
Durante la preparazione di Santa Sangre non tardai ad accorgermi che mi trovavo in una città, un mondo e un regista fuori dalle righe. Il risultato è stato un film pazzesco, pieno di immagini pittoriche, sanguigne. Questo colore spudorato che sgorga dappertutto, quasi volgare nella sua irruenza. Nelle notti in Piazza Garibaldi, la piazza delle prostitute che reimmaginata da Jodorowsky diventa una sorta di girone infernale dove travestiti, ubriachi, venditori ambulanti e mariachis armati di chitarre e sombreri si prostituiscono ai turisti, ho cercato di esprimere il senso di disagio che ho provato io stesso. La fotografia è pregna di un vizio corporeo e palpabile che sembra ti resti addosso vischioso e sudaticcio. Le strade, sempre bagnate, riflettono i colori densi e sfacciati delle insegne al neon. Nella scena della morte della donna tatuata, c’è una atmosfera pazzesca, dove il rosso, il nero e il blu, ricordano molto i quadri di Otto Dix, ai quali mi sono ispirato più volte fotografando questo film.
Come fu possibile illuminare un ambiente tanto grande com’era Piazza Garibaldi?
Piazza Garibaldi era un totale mixage di suoni, di maracas, di musiche che provenivano dai night club. Io l’ho trasformata in una specie di palcoscenico, con luci in campo e lampioni dall’alto ad illuminare prostitute e travestiti. Nella scena in cui il pusher porta tutti i ragazzi con sindrome di Down e il protagonista che è pazzo a fare le loro prime esperienze sessuali, la luce impietosa di un lampione illumina una grassa, enorme prostituta che abbraccia come una piovra tutti e tre i poveri ragazzi e se li porta via. Sia prima delle riprese, durante i sopralluoghi con Alejandro, vidi cose per le quali non credevo ai miei occhi. Ho visto un teatro in cui si faceva sesso dal vivo, sotto gli occhi di un pubblico urlante molto variopinto, l’odore di alcool era insopportabile, le “ballerine” scendevano in pista nude ad esporsi richiamando il pubblico con gesti osceni e chi voleva saliva sulla passerella e poteva fare tutto quello che voleva con loro.
Come si muoveva Jodorowsky nella realtà caotica di Città del Messico?
Un giorno girammo la scena iniziale del film in un istituto per bambini con sindrome di Down in quella location Alejandro ed io notammo dei bambini che si erano appartati e che si davano bacini, e all’improvviso Jodorowsky mi disse: “questo è il paradiso, questi sono tutti angeli, perché non conoscono il peccato”. Lui aveva questo genere di visioni, erano figlie del suo immaginario tutto impregnato della cultura cattolica messicana. Una cultura molto contraddittoria e ambigua sul versante del peccato, com’è inevitabile che sia.
Ti trovasti bene ad interagire con Jodorowsky durante le riprese del film?
Quando iniziammo a girare il film, mi resi conto che la preparazione di Alejandro aveva dato i suoi frutti, cominciai a lavorare con grande passione, più con istinto che tecnica. Con Alejandro ero entrato in una tale sintonia che lui volle fare a meno anche dell’operatore di macchina, e mi costrinse a tenere l’occhio al buco per tutto il film. Mi è costato molta fatica, ma ora gliene sono grato, perché questo film ora lo sento come una mia “creatura”. Penso di essere riuscito a dare tutte le sensazioni che il racconto richiedeva. Fin dalle prime immagini, quasi incolori del manicomio, a quelle del circo, che raccontano la giovinezza del protagonista, delicatissime e piene di tenerezza. E via via in un crescendo di follia fino a giungere alla scena dell’uccisione della madre, dove anche i colori degenerano nella pazzia di Fenix, il personaggio del film.
Quanto sei soddisfatto del tuo lavoro su Santa Sangre, uno dei titoli più visti della tua filmografia come cinematographer?
Sono molto felice di aver avuto questa esperienza con Jodorowsky: un uomo straordinario, geniale, forse un po’ pazzo, che mi ha insegnato ad esprimermi fotograficamente senza inibizioni e con grande coraggio. Per questo film ricevetti anche una candidatura ai Nastri d’Argento. Per me però quello che conta non sono i premi ma l’averlo girato: ho fatto decine di film, ma Santa Sangre è quello che mi è rimasto più nel cuore.
In apertura una foto scattata durante le riprese di Santa Segre. Al centro Alejandro Jodorowsky e a sinistra Daniele Nannuzzi.