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Cinquant’anni e non sentirli. Buon compleanno Trinità

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Pubblicato il 22 Dicembre 2020.

di Leonardo Rafanelli

Raccontano che il regista Enzo Barboni (in arte E.B. Clucher) si aggirasse per Roma con un copione un po’ “sperimentale” sotto braccio, cercando invano qualcuno che volesse produrlo. Lo si può quasi immaginare come il Trinità dell’inizio della pellicola, intento a trascinarsi nel deserto sulla sua slitta sgangherata. Si dice addirittura che prima di trovare un produttore si sentì dire “no” per dieci volte. Infine il “sì” arrivò, e adesso eccoci qui a raccontare cosa rappresenta Lo chiamavano Trinità, a distanza di mezzo secolo dall’uscita nelle sale italiane, il 22 dicembre del 1970.

Di certo è un film che potrebbe figurare su un dizionario alla voce “cult”. Queste potenzialità furono chiare quasi da subito: con oltre tre miliardi di lire (circa 27 milioni di euro, secondo le rivalutazioni attuali) raccolti al botteghino, conquistò il titolo di vicecampione di incassi di quella stagione, superato solo da Per grazia ricevuta di Nino Manfredi. E in ogni caso era solo l’inizio: il suo successo ha continuato a crescere in Italia e all’estero, entrando nel cuore di ogni generazione dagli anni ’70 a oggi. Se anche servissero delle prove, gli episodi da citare non mancano: nel 1988, ad esempio, il suo passaggio in tv fu seguito da 11 milioni di spettatori, nonostante fossero passati quasi vent’anni dall’uscita al cinema. Nel 1992 Lo chiamavano Trinità figurava nella top ten delle VHS più vendute. C’è poi tutto il filone a cui questa pellicola ha dato vita, incardinato sulla coppia composta da Carlo Pedersoli e Mario Girotti, meglio noti come Bud Spencer e Terence Hill. E persino Quentin Tarantino ne ha citato la colonna sonora in Django Unchained.

Insomma, è doveroso riconoscere a Trinità lo status di “classico” del cinema italiano, capace di sposare in modo sorprendente due generi teoricamente agli antipodi come western e commedia. Ma se oggi è facile parlarne in questi termini, cinquant’anni fa i dubbi non erano mancati. La trama che Barboni / Clucher proponeva era essenziale, praticamente tradizionale: un maggiore dell’esercito vuole impadronirsi dei terreni di una comunità di agricoltori mormoni. Un ladro di cavalli si spaccia per sceriffo di una piccola cittadina ai margini del deserto, mentre attende di poter mettere a segno un grosso colpo. E il fratello del ladro di cavalli, micidiale pistolero dal cuore d’oro, arriva in città e sconvolge gli equilibri. Ovviamente c’era dell’altro, tanto che ogni rifiuto da parte dei produttori era basato sulle stesse motivazioni: troppo strano, troppi dialoghi, pochi morti. In un genere come il western, che pure vedeva la sua popolarità avviarsi verso il tramonto, eliminare il sangue e buttarla sul ridere appariva all’epoca come un rischio troppo grosso.

Ma c’era evidentemente un destino, per questo film, e i pezzi iniziarono ad andare a posto: Italo Zingarelli accettò di portare avanti la produzione, mentre furono gli stessi Bud Spencer e Terence Hill a proporsi in coppia, rivelandosi perfetti per la parte. Del resto, anche quando si presentano nella valle dei mormoni nei panni di Trinità e Bambino, appaiono come gli uomini giusti al momento giusto, tanto che vengono ringraziati con “È il Signore che vi manda”. Per poi rispondere: “No, passavamo per caso”. Battuta iconica di due personaggi altrettanto iconici, fusi perfettamente con i loro interpreti al punto che si faticano a immaginare questi ruoli affidati ad altri attori.

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Eppure, anche qui poteva andare diversamente: all’inizio era stato contattato Franco Nero, già noto per il ruolo di Django. Poi si era pensato a George Eastman e a Peter Martell. Qui, tuttavia, parlano i fatti: l’ex campione di nuoto Carlo Pedersoli non era nemmeno convinto di voler fare l’attore a tempo pieno, ma nei panni di Bud Spencer è diventato un star internazionale, e persino a Budapest c’è una statua che lo ritrae proprio nella posa del protagonista della saga di Trinità, con la sella sulle spalle dopo una delle tante fughe attraverso il deserto.

Lo stesso successo ha sorriso all’ex ginnasta Mario Girotti/Terence Hill, oggi legato anche al personaggio di Don Matteo, ma sigillato nell’immaginario di tutti come “la mano sinistra del diavolo”, il pistolero velocissimo e astuto, che però alle pallottole preferisce gli schiaffoni. Il punto di forza, tuttavia, è ed è sempre stato nella coppia: due attori perfetti per due personaggi ben caratterizzati, secondo uno schema preciso, certo, ma ricco di sfaccettature. Un meccanismo capace di uscire dalle pianure del vecchio West, e di riproporsi efficacemente nei contesti più disparati.

In pratica ne è scaturito un genere, che è stato chiamato in molti modi: “commedia western all’italiana”, “fagioli western”, “filone del bello e del grosso”. E di fatto, quando si dice “film con Bud Spencer e Terence Hill”, non si pensa tanto a una coppia di attori, quanto a un genere vero e proprio.

La formula può addirittura vantare surreali tentativi di imitazione: primi fra tutti, i cinque film di Simone e Matteo, girati tra il 1974 e il 1976 sull’onda del successo della coppia originale. In queste pellicole siamo di fronte a due sosia veri e propri: Paul Smith e Michael Coby, doppiati, tra l’altro, dagli stessi Glauco Onorato e Pino Locchi che avevano prestato le loro voci alla coppia Spencer – Hill. Ma c’è di più: i film di Simone e Matteo ricalcano le stesse identiche dinamiche di Lo chiamavano Trinità e dei successivi: quel mix di situazioni comiche, dialoghi arguti e scazzottate rocambolesche che, appunto, avevano dato vita e veri e propri cult.

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Ovviamente il tentativo non si avvicinò neppure, al successo degli originali. Ma è un’ulteriore prova di una ricetta unica, che funzionava cinquant’anni fa e funziona anche adesso. Chi ha visto Lo chiamavano Trinità al cinema racconta di aver riso come poche altre volte in una sala, ma ancora oggi, nonostante le innumerevoli visioni, è difficile trattenersi di fronte al bandito messicano Mezcal intento a spaccare tavolini sulla schiena di un impassibile Bud Spencer. Che risponde con il classico pugno a martello, peraltro di sua invenzione.

Si ride, guardando questo film, e i toni della farsa prendono il posto di quelli ben più tragici dell’epopea western. Siamo quasi dalle parti del cartoon, ma non si scivola mai nella parodia: il genere di riferimento è presente in maniera credibile, e gli stessi protagonisti, a ben guardare, non sono caricature. C’è piuttosto una sorta di dialogo tra il vecchio e il nuovo, tra i due modi di affrontare il selvaggio West: da una parte Trinità, scanzonato, astuto e fondamentalmente buono. Dall’altra Bambino, convinto razziatore che tenta invano di riportare il fratello all’interno dei canoni del fuorilegge. Quelli, per capirsi, che costituiscono l’ossatura del genere cinematografico.

È un tema che è stato ripreso in maniera ancora più articolata da Tonino Valerii nel 1973, con Il mio nome è Nessuno. Qui troviamo Terence Hill nei panni di un personaggio molto simile a Trinità,  ma a fargli da contraltare al posto di Bud Spencer c’è Henry Fonda, un vero e proprio monumento al western, e la storia prende tutt’altra piega. Eppure, dentro Trinità c’era già tutto: quella continuità nella rottura che recupera il mondo western attraverso un approccio nuovo. Dissacrante, certo, ma mai irrispettoso. Divertente, adatto alle famiglie, ma non per questo incapace di mettere sul piatto un western a tutti gli effetti. E non è un caso, dunque, che il successo di Trinità sia arrivato praticamente in tutto il mondo, compresi quegli Stati Uniti d’America che dei pistoleri a cavallo sono la patria, e dove Bud Spencer e Terence Hill sono noti come i Trinity boys.

Ora che Lo chiamavano Trinità spenge 50 candeline, non possiamo fare altro che rivederlo ancora una volta, ammirando con un pizzico di sorpresa quanto ancora funzioni e ci diverta in ogni singola scena.

 

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