Pubblicato il 9 Settembre 2021.
Pubblichiamo un estratto del libro di Emiliano Morreale ‘I film della dolce vita – Cinema d’autore degli anni Sessanta’ edito da Dino Audino Editore che ringraziamo.
Capitolo primo
Le Mutazioni della società e del pubblico
Renato, Renato, Renato, mi porti al cinema e guardi il film!
Nelle rievocazioni giornalistiche e nell’opinione comune, i primi anni Sessanta sono considerati di solito l’età dell’oro della società italiana e del suo cinema. I due ambiti sembrano correre paralleli, anzi saldamente collegati: il miracolo economico viene automaticamente illustrato, quando se ne parla nei giornali o in tv, con le immagini dei film dell’epoca, in un intreccio che non troviamo così forte in nessun momento successivo e nemmeno in momenti precedenti (forse nemmeno nel breve giro d’anni del primo Neorealismo).
Del resto, è forte e non immotivata la tentazione di far coincidere quasi esattamente il cosiddetto boom con una stagione peculiare e isolabile del cinema italiano. Il periodo del miracolo economico strettamente inteso (1958-63) è quello in cui esplodono, nel giro di pochi anni, i grandi successi di Fellini, Visconti e in parte Antonioni, ma è anche il periodo trionfante della commedia all’italiana, e vede affacciarsi una nuova generazione coetanea delle nouvelle vague (Rosi, Olmi, Pasolini, Bertolucci, per non citarne che alcuni).
Per dare l’idea del mutamento epocale si possono esibire una serie di eventi simbolici. L’anno di confine è secondo molti storici il 1958: quando, mentre le pubblicità dei frigoriferi appaiono massicciamente sui giornali, nasce Carosello, entra in vigore la legge Merlin che decreta la fine delle case chiuse, viene inaugurata l’autostrada del Sole, muore Pio XII e gli succede Angelo Roncalli. Negli anni del miracolo economico si afferma una serie di fenomeni incubati in precedenza e destinati a segnare, nonostante la recessione del 1964-65, tutto il decennio: la sostanziale piena occupazione, le migrazioni interne (che toccano l’apice nel 1961-63), la crescita dei salari e della combattività operaia, e infine il dato che, per l’immagine di quegli anni, è più appariscente, ovvero la nascita di un autentico mercato per l’automobile e gli elettrodomestici. 10.000 sono le lavatrici prodotte nel 1958, 1.263.000 nel 1963, e nello stesso periodo «la fabbricazione di autoveicoli quintuplicò […], i frigoriferi da 370.000 diventarono un milione e mezzo […] e i televisori (che non erano più di 88.000 nel 1954) 634.000» (1). Dal 1954 al 1964, gli occupati nelle campagne passano da 8 a 5 milioni, «segnando la fine (o l’inizio della fine) dei di- versi mondi rurali che compongono il Paese» (2), mentre crescono in maniera sensibile i lavoratori dell’industria e del terziario. Il reddito nazionale netto raddoppia dal 1954 al 1964; il reddito pro capite passa da 350.000 a 571.000 lire. Da quel breve giro di anni uscirà un’Italia completamente mutata.
Come ha osservato Silvio Lanaro, a rigore il boom non è da intendersi tanto in termini quantitativi, visto che si tratta più che altro di «un’accelerazione, molto sensibile ma non clamorosa, del processo espansivo iniziatosi nel 1951-52» (3). Perfino alcuni simboli del miracolo economico erano già presenti prima della fine del decennio: la Fiat Seicento viene commercializzata nel 1955 e la Cinquecento nel 1957 (ma è del 1960 un ribasso decisivo dei costi delle medie cilindrate), il primo supermercato apre nel 1957. Come sintetizza Guido Crainz: «Ciò che balza agli occhi non è semplicemente la rapidità dei processi del 1958-63: è il vero e proprio cortocircuito fra i precedenti orizzonti economici, previsioni, quadri mentali, e quelli indotti dal boom» (4).
Soprattutto, e qui entriamo nel vivo del nostro discorso, nascono nuovi ceti e nuovi consumi. Uno degli esempi più indicativi è la crescita dell’istruzione di massa, specialmente dopo l’istituzione della scuola media unica e obbligatoria. Fra il 1955 e il 1965 gli iscritti alle superiori raddoppiano (da 600.000 a 1.200.000). L’Italia comincia a diventare un luogo conosciuto ai propri abitanti, non solo a causa delle migrazioni interne ma anche delle progressive facilità di spostamento. Si incrementa soprattutto il trasporto privato, anche per brevi periodi, insieme alle vacanze di massa. Le partenze aeree si quadruplicano: da 900.000 nel 1958 a 3.600.000 nel 1965.
«Il consumismo, come è noto, esige una disponibilità discrezionale di reddito e un’accentuata omogeneità di gusti» (5). Cosa che appunto avviene in Italia, in ritardo rispetto agli USA ma anche agli altri paesi europei avanzati, e soprattutto con caratteri particolarmente marcati:
Nell’Italia degli anni Sessanta il consumo assurge a divinità suprema perché una congiuntura storica assolutamente straordinaria – il fatto che la sua espansione coincida con l’effettiva unificazione sociale e demografica del Paese – lo carica di cifre simboliche addizionali svincolandolo da obbedienze, discipline e cautele di qualsiasi natura: in altri termini, perché lo trasforma in un segnale di riconoscimento che permette agli uomini del nord e del sud, della città e della campagna, delle classi elevate e dei ceti popolari di adattarsi reciprocamente con una naturalezza che chiesa, lingua, partiti, istituzioni pubbliche e servizio militare non erano mai riusciti ad assicurare.(6)
L’alfabetizzazione di massa e la pervasività dei media sono fondamentali, almeno al pari dei mutamenti strutturali dell’economia, per capire le tendenze di fondo di quegli anni. Infatti, proprio allora si stabilisce nel nostro Paese un moderno sistema dei media, non solo audiovisivi. A metà anni Cinquanta nascono quotidiani come Il Giorno e settimanali come L’Espresso, e i libri tascabili a cominciare dagli Oscar Mondadori (nella copertina del primo volume, Addio alle armi, c’è un ritratto di Rock Hudson nell’omonimo film di Charles Vidor). Si affermano i primi veri bestseller: Il dottor Živago e Il Gattopardo nel 1957 e 1958, nel 1960 La noia e La ragazza di Bube. Ancora: «Il 1958 è il primo vero anno-boom del mercato discografico» (7). A cambiare ora sono la struttura e il ruolo della musica: nel 1958, al Festival di Sanremo, vince Nel blu dipinto di blu di Modugno contro L’edera, esempio dei cantanti ancora legati allo stile d’anteguerra. E del 1961 è la prima “canzone per l’estate”, Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco, che si rivolge a un pubblico di giovani “in quanto tali”. Quella del boom sarà infatti la prima generazione di giovani percepiti in quanto tali nel discorso pubblico e al proprio interno (8).
Dal punto di vista dell’industria del cinema, questo implica anzitutto la nascita di un nuovo pubblico, e di nuove potenzialità di comunicazione per gli artisti. Ma anche la necessità di nuovi temi, di nuovi luoghi, e (come vedremo) di nuove forme del racconto. Come sintetizza Gian Piero Brunetta: «I film in testa alla classifica 1957 sono Belle ma povere di Dino Risi, Lazzarella di Carlo Ludovico Bragaglia, Arrivederci Roma di Roy Rowland, Vacanze a Ischia di Mario Camerini. Mentre nel 1960, i primi quattro titoli al vertice degli incassi comprendono La dolce vita di Federico Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, La ciociara di Vittorio De Sica, Tutti a casa di Luigi Comencini» (9).
Per definire questo sorprendente cambiamento, Vittorio Spinazzola conia già all’epoca il termine “superspettacolo d’autore”, riferendolo in particolare ai citati film di Fellini e Visconti, ma anche ai loro film successivi fino al ’63 (8 1⁄2, Il Gattopardo) e alla coeva “trilogia dell’incomunicabilità” di Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse).
Si tratta di un mutamento decisivo, ma anche di un unicum. Nella storia del cinema italiano successivo, non si ripeterà più il caso di un cinema d’autore che stia al vertice degli incassi. Anzi, a partire dalla metà del decennio si assisterà alla divaricazione tra un cinema “alto” sempre più privo di pubblico e un cinema popolare sempre più indirizzato verso generi “bassi”, dal western all’italiana al mondo-movie fino ai generi degli anni Settanta come il thriller alla Dario Argento, il “poliziottesco”, la commedia sexy. Va già notato, per intanto, che mentre il sistema dei media si amplia, al suo interno il cinema rischia di avere un ruolo sempre meno centrale: secondo i dati SIAE, se dal 1954 al 1958 la spesa per il cinema era calata dal 71 al 61% di quella complessiva per gli spettacoli, nel periodo dal 1958 al 1964 scenderà ancora a poco sopra il 50%. E dalla metà degli anni Sessanta, per la prima volta, il cinema non sarà più la forma di spettacolo principale per gli italiani, soppiantato dalla televisione. La quale, all’epoca del boom, trasmetteva già da qualche anno (l’emissione inaugurale era stata il 3 gennaio 1954), e nei primi tre anni i suoi abbonati erano cresciuti da 88.000 a 600.000. Negli anni 1958-64, invece, si passa da uno a cinque milioni. A questo punto la televisione è ormai centrale nei consumi culturali degli italiani, ma soprattutto è chiaramente definita come forma di spettacolo domestico, a differenza di una prima fase nella quale era assai rilevante il suo ruolo all’interno dei locali pubblici. Il modello televisivo si basa essenzialmente sulla pedagogia, sul varietà di derivazione teatrale-musicale, sul gioco a premi derivato dalla radio, e soprattutto sulla ripresa filmata di pièce teatrali o sui primi rudimentali esempi di sceneggiati tratti dalla narrativa. Si tratta di modelli esteticamente derivativi, che cercano di acclimatare la novità tecnologica attraverso la ripresa di forme precedenti di spettacolo. Non esistono, come negli Stati Uniti, una produzione industriale di serial o la creazione di originali televisivi (10), e forse la maggiore operazione creativa della televisione dei primi anni è la formula di Carosello, in onda dal febbraio 1957.
Il rapporto tra ascesa della televisione e declino dello spettacolo cinematografico è tutt’altro che meccanico o univoco. È indubbio, comunque, che tra il pubblico televisivo e quello cinematografico si crei, già negli anni Sessanta, una certa divaricazione, e che si costituisca dunque un pubblico cinematografico nuovo per composizione sociale, età e genere sessuale. Come osservava il critico Pietro Bianchi all’epoca: «Ricevendo spettacoli mediocri dal video, la gente pretende dal cinema la qualità». In un’inchiesta del 1961 (11), i massimi frequentatori del cinema risultano essere i diplomati e i laureati (l’82,8%, con una frequenza mensile di 3,5 volte) e la frequenza scende insieme al titolo di studio (fino al 31,8%, con frequenza di 0,8 presenze mensili, per quelli senza titolo di studio). Lo stesso legame c’è tra frequenza cinematografica e classe sociale: dalla “classe media-superiore e superiore” (82,5% e 3,5 presenze mensili) si scende al 41,8% della categoria “inferiore” (1,2 presenze). Assai significativamente, la fascia di età più fedele è quella 16-35 anni (83,8%; 2,8 presenze mensili), che sarebbe stato interessante scorporare al suo interno, seguita da quella 36-55 (62,1%; ma con una frequenza mensile maggiore, 3,3, che può indicare in questo pubblico di mezza età la persistenza di un tipo di fruizione più “indifferenziata”, rivolta al cinema e non ai film).
Alle soglie degli anni Sessanta, la frequenza di chi va al cinema in Italia è ancora molto più elevata che negli altri paesi europei. Ma questo pubblico comincia a non essere più lo stesso di qualche anno prima:
Dal 1957 al 1960 emergono i segnali di una trasformazione dell’identità del “moviegoer”. Lo spettatore di cinema assume progressivamente un profilo anagrafico preciso. Chi si reca al cinema è il giovane di meno di 35 anni; maschio; che vive nei grandi centri urbani; sia nel nord, sia nel centro-sud d’Italia. È indifferentemente “imprenditore” o “lavoratore manuale”; diplomato alla media inferiore o laureato.(12)
L’arrivo della televisione, per questo pubblico, non funge affatto da deterrente, e ha semmai l’effetto di dargli un carattere più omogeneo dal punto di vista culturale e generazionale. Per questo pubblico, che comincia a costruire la propria identità come generazione autonoma, e appoggiandosi più ai media che alle istituzioni sociali o famigliari (13), la visione del film, come emerge nelle interviste compiute decenni dopo, è molto più che in passato un momento di cultura: «La visione del “film impegnato” è talmente importante nel processo di costruzione dell’identità collettiva di questa generazione di spettatori da diventare un vero e proprio dovere sociale, spesso subìto, mai eluso» (14). E i titoli che ricorrono più di tutti, nelle memorie degli spettatori, sono proprio La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli, simboli di questa nuova maniera di fare e di vedere il cinema italiano.
Si tratta di un nuovo pubblico anche dal punto di vista generazionale. A fare la differenza sono anzitutto i nuovi spettatori.
Mentre [i giovani] si separano e si precisano come generazione diversa, l’intimità con le ambizioni nuove degli adulti insieme all’attrazione verso il mutevole e indecifrabile rimescolamento dei valori della società del boom in realtà aumentano. Lungi dal rifiutarli, rinvengono più ruoli per sé proprio negli spazi imprevisti del benessere incipiente, più opportunità di quante non ne avessero avute in precedenza. In altre parole i giovani abbracciano il boom, gli vanno incontro con istinto confuso ma sicuro, senza riserve mentali, senza moralismi, in modo spontaneo e fiducioso. (15)
Eppure, curiosamente è proprio l’universo giovanile a rimanere spesso fuori dal cinema d’autore del periodo. Le poche eccezioni (su tutti I dolci inganni, 1960, di Alberto Lattuada) non modificano l’impressione generale. I “giovani” semmai sono osservati non come nuovo soggetto emergente, ma nell’attimo in cui si inseriscono nella società (i giovani impiegati del Posto, 1961, e I fidanzati, 1963, di Olmi), e i tratti generazionali sono secondari, ovviamente, nei sottoproletari di Pasolini, e in fondo anche nei proletari di Rocco e i suoi fratelli. Mentre saranno altri ambiti, come la commedia, a prendere di petto una novità su cui insistono molto i rotocalchi (emblematico il personaggio della Spaak nella Voglia matta, 1962, di Luciano Salce) per non parlare di un genere esplicitamente “giovanilista”, forse il primo nella storia del cinema italiano, e cioè il cosiddetto “musicarello”, che celebra i suoi trionfi a partire dalla stagione 1963-64 (16). Dunque, se non come oggetto del racconto, è come pubblico che la generazione di nati nel dopoguerra risulta centrale per capire il ruolo e il senso del cinema in quel periodo.
Per capire lo sfondo su cui si affermano i film che saranno analizzati in questo libro bisogna dunque tenere conto di tutto il quadro d’insieme che abbiamo tracciato. Ossia un Paese in trasformazione culturale oltre (e forse ancora più) che economica; l’affermazione di una generazione di giovani che si percepiscono e sono percepiti come tali in conflitto con le generazioni precedenti; una mutazione dei consumi culturali all’interno dei quali il cinema è avviato verso un lento declino, ma è ancora centrale nella gerarchia e nel prestigio; una mutazione del pubblico del cinema, meno indifferenziato, più istruito, teso a distinguersi da quello televisivo; un ruolo contraddittorio, all’interno di questi nuovi consumi culturali, delle donne.
Si tratta di una premessa essenziale per cogliere lo spessore anche stilistico dei film che analizzeremo e delle tendenze di una fase fondamentale della storia del cinema non solo italiano, caratterizzata da un mutamento radicale del linguaggio. Un passaggio alla modernità cinematografica, che cercheremo di considerare insieme all’aspetto culturale complessivo. Come suggeriva Vincenzo Buccheri:
È quasi banale ricordare come il passaggio dallo stile cinematografico classico allo stile della modernità coincida con uno spostamento del pubblico da gusti e stili di vita popolari, di massa, a gusti e stili di vita medio e piccolo-borghesi. Meno scontato, però, è riflettere sul fatto che alcuni stili del cinema d’autore degli anni Sessanta corrispondono ad altrettante opzioni di gusto e di classe. Ad esempio, i film degli anni Sessanta di Antonioni e di Fellini, che una stilistica del testo porterebbe a contrapporre (l’uno asciutto e “vuoto”, l’altro eccessivo e “pieno”), in chiave di stilistica del gusto appaiono invece complementari: entrambi sono contrassegno di una borghesia colta tradizionalista ma moderatamente progressista, che attraverso l’adesione negozia o contesta la sua appartenenza di classe (si pensi alle polemiche di molti intellettuali, in primis Arbasino, contro lo stile di Antonioni). Tale classe, poi (e questo è l’altro punto fondamentale), è del tutto diversa dalla base sociale che adotta come propri i linguaggi della Nouvelle Vague francese, i quali sono invece espressione dell’habitus di nuovi gruppi emergenti, giovanili e politicamente anarcoidi. (17)
Note:
(1) Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi, Torino 1995, p. 417.
(2) Guido Crainz, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma 1996 (2003 II ed.), p. 87, il quale specifica che «una diminuzione così rapida del peso dell’agricoltura avvicina semplicemente l’Italia ad altri paesi europei» come Francia e Germania.
(3) Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, p. 239.
(4) Guido Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 56.
(5 Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., p. 271.
(6) Ivi, p. 276.
(7) L’aumento delle vendite in quell’anno è del 30%: «Dai 5 milioni di dischi del 1953 siamo ora a poco meno di 18 milioni, che saranno 22 nel ’52, 44 nel ’64» (Stephen Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, Giunti, Firenze 1995, p. 77).
(8) Simonetta Piccone Stella, La prima generazione, Franco Angeli, Milano 1993.
(9) Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Vol. IV: 1960-1993, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 5.
(10) Cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio, Venezia 1992, p. 307.
(11) Il cinema e il suo pubblico, a cura di CODIS italiana, 1961, cit. in Francesco Casetti e Mariagrazia Fanchi, “Le funzioni sociali del cinema e dei media: dati statistici, ricerche sull’audience e storie di consumo”, in Mariagrazia Fanchi ed Elena Mosconi (a cura di), Spettatori, Edizioni di Bianco & Nero, Roma 2002.
(12) Francesco Casetti e Mariagrazia Fanchi, “Le funzioni sociali del cinema e dei media”, cit., p. 141.
(13) «Il punto metaforico di raccolta della gioventù in questi anni, il luogo simbolico del loro incontro corrisponde al cinema e alle immagini fotografiche. I ventenni non si riconoscono ancora in un “noi” sul piano nazionale […] attraverso le immagini. Il James Dean di Gioventù bruciata, il Marlon Brando del Selvaggio, l’impudica Pascale Petit di Peccatori in blue-jeans, le immagini e i film di Brigitte Bardot, l’esistenzialista Juliette Gréco, la protagonista più ritratta del processo Montesi, Anna Maria Moneta Caglio, inducono l’autoriconoscimento silenzioso di una generazione per adesione spontanea, con quell’inclinazione che James Coleman riassume nell’espressione “inward lookingness”: il guardarsi reciproco, l’imitazione, il prendersi a modello l’un l’altro» (Simonetta Piccone Stella, La prima generazione, cit., pp. 11-12).
(14) Francesco Casetti e Mariagrazia Fanchi, “Le funzioni sociali del cinema e dei media”, cit., p. 156.
(15) Simonetta Piccone Stella, La prima generazione, cit., p. 13.
(16) Sul tema cfr. Claudio Bisoni, “Cinema a 45 giri”, in Giacomo Manzoli e Guglielmo Pescatore (a cura di), L’arte del risparmio: stile e tecnologia, Carocci, Roma 2005, pp. 53-61.
(17) Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico, Carocci, Roma 2010, p. 55.
I film della dolce vita
Cinema d’autore negli anni Sessanta
di Emiliano Morreale
Pagine: 168
Pubblicazione: 2021
Prezzo: 19,oo euro