Pubblicato il 4 Ottobre 2021.
di Stefano Scanu
In Largo Ascianghi c’è una lunga coda di persone che arriva fino alla strada, ogni tanto si sente scampanellare, allora si apre per far passare il tram e poi si serra di nuovo. Sfila sotto il neon brillante del Nuovo Sacher, sotto la scritta rossa e bianca Tre Piani e infine oltre i caratteri littori del Dopolavoro dei Monopoli di Stato e la grande aquila che si gira dall’altra parte per non vedere.
Eshkol Nevo è seduto nell’atrio a firmare le copie del romanzo da cui il film è tratto, Nanni Moretti svetta su tutti, osserva la gente da dietro il tender, guarda l’orologio, fa la spola tra l’ufficio e la biglietteria, tra poco si inaugura.
La sala mormora, i fotografi stanno in piedi sui corridoi ad aspettare che il regista salga sul palco per presentare il film; indossa una polo rossa come le poltrone e le tende, quasi scompare in quella distesa di velluto scarlatto. Poi prende il microfono, ringrazia tutti gli intervenuti, il cast, soprattutto Nevo che ha saputo condensare in un libro e in un palazzetto di tre piani così tante vite e destini.
Infine si scusa, che insomma deve scappare, correre al Mignon a presentare il film, però in fondo è una bella notizia perché il cinema di via Viterbo riapre con uno schermo in più, non sarà tanto ma se si pensa a tutti quelli che invece si sono spenti in questi lunghi mesi di languore cinematografico, allora sembra una cosa enorme. Così augura una buona visione, qualcuno gli passa la giacca e il casco ed esce dal Nuovo Sacher. I fotografi saltano giù dai cavalletti su cui erano appollaiati e lo seguono fino al parcheggio, lo riprendono mentre sale in vespa e scompare nei vicoli di Trastevere.
E per uno scooter che va, una macchina arriva, stavolta sullo schermo: è notte, la Rohrwacher trascina un trolley per strada, con la mano si tiene la pancia mentre un’auto la sfiora a tutta velocità prima di incunearsi letteralmente dentro l’edificio da cui lei è uscita.
Il film comincia così, o almeno quello che sono riuscito a vedere perché poi decido di andare al Mignon, di seguire questa première itinerante, monto anche io sulla vespa che ho comprato anni prima in preda a una emulazione inconsapevole ma quando arrivo a Piazza Fiume è troppo tardi, non si può più entrare; non mi lamento, poco male, vorrà dire che questo evento durerà più di quanto doveva, almeno per me.
Allora il giorno dopo penso a un altro cinema, scelgo il Quattro Fontane, rifaccio la fila, un po’ più dimessa, un po’ meno glamour, e passo le successive due ore a spiare la vita di un condominio che è un microcosmo, una piccola riserva di esistenze che si guardano, si parlano, si contaminano, si sfiorano e a volte si urtano tra loro per non isolarsi, come spinte da una forza invisibile, e penso che tutta questa solitudine assoluta delle persone appartate, o quella delle coppie e delle famiglie che non comunicano, che non si capiscono, che insomma tutto ciò somiglia tanto a quello che abbiamo vissuto noi, chiusi nei nostri palazzi di tre piani e oltre, e ci vuole qualcosa come una macchina che sfreccia e sbreccia il muro della casamatta per liberare tutti.
Nel momento in cui il dentro e il fuori si invertono, accadono cose; fatalmente succede anche nel film, si schiude il portone, girano l’angolo e salgono in macchina. Il mondo esterno è più arieggiato e interessante ma anche più pericoloso, come può esserlo un parco, un tribunale, un ospedale dove si consuma l’ossessione di Lucio/Scamarcio, la dissociazione di Monica/Rohrwacher o la disperata autoaffermazione di Dora/Buy.
Poi però, quando rincasano, portano con sé un po’ di quello che hanno visto e vissuto, e l’abitazione non assomiglia più al rifugio che avevano lasciato ma a qualcosa di inospitale, disturbante, le tre famiglie si disgregano e la crepa che ha aperto l’auto nel prologo, sale metaforicamente fino al tetto incrinando il muro delle loro stanze come una moderna casa Usher.
Mentre assisto a questa rissa di spazi chiusi e aperti, di nidi e di prigioni, penso pure che è un bel paradosso brulicante tutta quella gente che si accoda, noi che ci accodiamo, schiviamo tram e auto per entrare in un edificio e ascoltare la storia di un gruppo di persone che invece fa di tutto per uscirne.
Bisogna pure farci i conti con questa cosa, che in fin dei conti il cinema è un posto dove per evadere bisogna entrare, e se si continua a chiuderli perderemo un modo di aprirci. Tanto vale stare fuori ancora un po’, in fin dei conti mi è convenuto, penso per l’ultima volta, dilazionare l’esperienza, provarci almeno tre volte (una per ogni piano della storia) prima di vedere questo film, fare un respiro profondo e rientrare in una sala che non fosse un’arena.